di Guido Barlozzetti
Tolo Tolo è il quinto film di Checco Zalone, strana creatura del cinema italiana, assurto ai massimi livelli del gradimento da parte del pubblico nazionale, con risultati al botteghino che trovano confronti solo negli anni d’oro della commedia all’italiana tra Cinquanta e Sessanta.
Grande attesa e anche qualche timore hanno fatto spostare l’uscita al primo giorno dell’anno, per non coprire tutto l’arco delle feste e evitare di risucchiare gli incassi, spiazzando la concorrenza.
Dopo un paio di giorni di programmazione il film ha superato i tredici milioni di euro. E già da questo si capisce quanto possano pesare elementi esterni in un discorso che si confronti con l’ultima performance di Zalone e quanto dunque sia il caso di metterli tra parentesi. Ci riferiamo all’attesa montata quattro anni dopo il successo incontenibile, oltre 65 milioni, di Quo vado?, alla distorsione creata da un box office così straripante, e quindi all’effetto-immagine che si è rovesciato sullo stesso Zalone.
Possiamo immaginarci la difficoltà di fronte alle quali possa essersi trovato un attore che ha conseguito un risultato così clamoroso e le alternative che si è trovato a soppesare. Provare a replicare un botto oppure sparigliare le carte? Procedere su una strada collaudata o cambiare di passo e trovare nuove motivazioni? Andare sul sicuro o rischiare? Capita in ogni situazione vincente, il desiderio di raddoppiare si accompagna alla paura di non riuscirci.
E allora cosa ha fatto Zalone?
Intanto ha meditato parecchio, si è diviso dal suo storico regista Gennaro Nunziante, un po’ perché una coppia difficilmente resiste al successo, un po’ perché i soldi in queste situazioni pesano e parecchio e ha preso il filo di un’idea che gli offriva Paolo Virzì e lo ha fatto suo, rinunciando a una collaborazione che avrebbe potuto dare esiti sorprendenti ma anche rivelarsi difficile.
Ma questi sono ancora elementi esterni, di contesto. Veniamo a Tolo Tolo e diciamo subito che è un film-migrante, per diversi motivi.
Intanto Zalone si sposta, va a cercare la sua storia in un territorio che era apparso in Quo Vado? con la savana, la tribù che lo catturava e la missione solidaristica che chiude il film, a che qui assume un rilievo centrale. L’Africa offre la scena e incastra il suo problema storico – il flusso di chi va a cercare futuro nel Nord ricco del mondo – con quello del protagonista che, schiacciato dalle tasse, braccato dal fisco, decide di andare in una terra dove forse si può ancora sognare.
Ecco dunque il rovesciamento strutturale del film, Zalone lascia clandestinamente l’Italia che lo cerca e i parenti-serpenti monicelliani che lo braccano e lo maledicono, e si ritrova, nella guerra che sconvolge quelle regioni, a dover migrare a rovescio. Lui, bianco e italiano, insieme a tanti neri che salgono su e finiscono, tanti, per approdare in Italia.
Insomma, un gioco delle parti che obbliga lui e lo spettatore a un confronto, inevitabilmente attuale e al centro di una polemica politica e di un discorso sociale che difficilmente esce da contrapposizioni stereotipate e pregiudiziali, da preoccupazioni propagandistiche o, al rovescio, dalle tentazioni del buonismo. Il personaggio di Zalone non è un missionario, ha una montagna di difetti e la meschinità di tanti intrappolati in un mondo vessato dalla burocrazia e di contro inclini alla furbizia e alle volgarità dell’individualismo, e in questo riprende una tradizione di attori e personaggi che hanno fatto la fortuna della commedia all’italiana. È però in questa contraddittorietà sta la sua forza che si esprime nei tic istintivi, nelle battute stranianti, nelle piccolezze rivelatrici, nell’emergere forzuto e con i gomiti sui fianchi della vis fascista che può annidarsi in chiunque, insieme alla carica di umanità che lo porta e in cui si fa coinvolgere nel contatto con una realtà drammatica, anch’essa ritratta nelle luci e nelle ombre, in cui prende corpo una contraddizione del mondo in cui viviamo.
Viaggio dunque di andata e ritorno, viaggio di conoscenza, lui che incontra Oumar, un cameriere tanto colto quanto inaffidabile, Idjaba che lo strega e che si rivela il personaggio più complesso della storia, e un bambino, Doudou, “come il cane di Berlusconi”, una battuta che ben chiarisce la vena ambigua e irriverente di Zalone.
Intorno guerriglieri, mercanti speculari a rovescio dei vucumprà delle nostre parti, trafficanti libici che fanno il paio con i parenti che speculano sul risarcimento dello Stato per la scomparsa di Checco.
La regia fatica un po’ a trovare una misura del racconto e riprende certi estri surreali di Zalone con clip musical, da quella notturna in cui i migranti danzano nel mare al volo-cartoon in mongolfiera e fra le cicogne del finale.
Adesso saremo inondati dalla solita chiacchiera degli schieramenti che faranno di tutto per ricondurre il film al duello quotidiano sui migranti. Per non parlare della controversia sulla comicità: si ride? Si ride, ma non troppo, no, non si ride… Tolo Tolo ha le carte per resistere.