VITE E FATTI MEMORABILI (ALMENO PER ORA)

Thomas Trabacchi nei panni di Primo Levi nella docufiction "Questo è un uomo". Capelli, barba e baffi brizzolati, occhiali marroni, camicia e cardigan grigi, è seduto con la mano destra a sorreggere il mento, in riflessione, in una biblioteca.

Questo è un uomo

di Guido Barlozzetti

 

Nella settimana della Giornata della Memoria, Rai1 presenta nella seconda serata di sabato 30 gennaio Questo è un uomo, una docufiction dedicata a Primo Levi.

La memoria non è solo un dovere, è un comportamento etico con cui ci si colloca nel divenire della storia e il passato diventa un'esperienza con cui confrontarsi, tanto più quando è un estremo terribile dell'umanità che dimentica se stessa.

Raccontare Primo Levi, in questo senso, significa uscire dalla ritualità di una Giornata e accogliere la provocazione di una figura che della testimonianza della Shoah visse dolorosamente la necessità, le contraddizioni e perfino il ricatto e il complesso di colpa. La colpa di essere sopravvissuti mentre tanti erano morti, la constatazione di predicare nel deserto, in un mondo che voleva e forse ancora vuole dimenticare, fino addirittura al negazionismo di chi rimuove l'esistenza stessa dei campi di concentramento.

Questo è un uomo riprende nel titolo l'opera che ha fatto conoscere Primo Levi che nel 1947 pubblicò Se questo un uomo. Una storia che gli procurò delusioni e lo mise di fronte proprio al paradosso di chi tornato dall'orrore misurava la distanza dal mondo che lo circonda.

Editori importanti come Einaudi avevano detto no, con la giustificazione che già erano usciti libri che rievocavano la deportazione degli ebrei.
Insomma, quasi nessuno si accorse del libro e delle 2500 copie stampate ne furono vendute solo 1500, al punto che Levi pensò di lasciare la scrittura e riprese la professione di chimico in un'azienda di vernici di Torino.

Solo nel 1955 Einaudi decise di riproporre Se questo è un uomo che uscì tre anni dopo incontrando un'attenzione nuova - i tempi erano cambiati dall'immediato dopoguerra e il pubblico delle nuove generazioni voleva sapere… - e rimotivando Levi a riprendere il lavoro di scrittore e di testimone.

Questo è un uomo, sceglie la strada della docufiction. Incornicia il racconto in una storia di finzione che via via procede e inserisce testimonianze dello stesso Levi e di studiosi, storici e di chi lo ha conosciuto, insieme a immagini della Shoah.

Si immagina che Levi, interpretato da Thomas Trabacchi, vada in montagna, nel silenzio della natura, e che incorra in un incidente che gli impedisce di camminare. Lo soccorre un uomo (Werner Waas) che lo porta nella sua malga. Da lì, nella solitudine di questi due uomini, parte il racconto che Levi fa della sua deportazione, via via con l'impressione che l'uomo che ha incontrato, silenzioso, brusco nei modi, non sia estraneo alla vicenda che lui ha vissuto.

Quindi, un doppio filo narrativo, la rievocazione di Levi e il rapporto con il suo soccorritore, con la parte docu che in parallelo approfondisce le vicende e i temi che emergono. Così, seguiamo la sua vita, il lager, la "fortuna" che salvò, la famiglia, le difficoltà con gli editori (significativo il confronto/fiction con Natalia Ginzburg che allora era consulente di Einaudi) le incomprensioni con la figlia, La Tregua, le riflessioni sulla responsabilità dei tedeschi, sul perdono, sull'identità ebraica, gli attacchi di cui fu oggetto per la posizione che assunse verso Israele e la sua politica nei confronti dei palestinesi, I sommersi e i salvati, fino agli ultimi anni e alla sofferenza per la memoria che veniva meno.

E' interessante proprio questo rimando tra il racconto di Levi e i nodi dolorosi che vi emergono e che ritornano nelle riflessioni e nei ricordi di Anna Foa, Moni Ovadia, David Mehnagi, Marco Belpoliti, Giovanni Tesio e Noemi Di Segni.

Ognuno porta un contributo, richiama l'attenzione su un aspetto particolare di una personalità che fu sempre inconciliata, come la memoria di cui Primo Levi era il tormentato custode, mai esente da un umorismo che certamente gli offrì il lenimento di uno schermo, di un filtro rispetto all'indicibile dei lager e al deserto che spesso sentì attorno a sé, popolato solo dagli spiriti dei tanti che erano rimasti nei campi di concentramento. Viene da ricordare ciò che disse a Philip Roth che lo intervistò negli anni Ottanta: la vita nei lager che era stata technicolor a fronte del bianco e nero di quella di tutti i giorni.

E commuovono, in questo senso, le immagini dello scrittore nelle interviste ritrovate negli archivi, la sua lucidità che non fa sconti, esatta come la chimica che aveva studiato ed era diventata la sua professione, fino alla pensione.

La docufiction ha il merito di metterci di fronte alla complessità sofferta di una condizione che resta sospesa, tra il perdono che si deve dare e non si riesce a dare, fra la memoria che va testimoniata e il rimprovero che essa comporta, tra il fatto di essere vivi e i milioni che sono morti.

Questi nodi tornano nel dialogo che si svolge nella malga con quest'uomo che forse è coinvolto quanto lui in ciò che sta raccontando. Fino a quando scopriremo che anche lui ha un numero impresso sul braccio…

Un'immagine s'impone fra le altre. Levi a un certo punto ricorda i "musulmani", così erano chiamati quelli che nei lager si rassegnavano, obbedivano agli ordini e basta, "come un cane da slitta di Jack London".

E l'immagine torna quando ormai la storia si avvia alla fine: "Forse il mio problema è che voglio salvare il mondo da solo, perché sono sopravvissuto, e invece forse non è un segno del destino, un dono di Dio, è solo fortuna, e io mi sento insensibile, perso, come un cane da slitta in un racconto di Jack London".
E l'Uomo della malga replica. "Tutto quello che facciamo non seve a niente, nulla serve a qualcosa, ci si perde o ci si salva per caso o per fortuna".

Potrebbe sembrare una conclusione pessimistica. Viene "addolcita" nel finale da una scena in cui Levi parla con la sua assistente nel laboratorio chimico in cui lavora. Le dice di chiudere gli occhi e riempie l'aria di fiocchi che sembrano di neve. "È una magia?", chiede lei. "No, è diossido di carbonio pressurizzato. Però è bellissimo".

 

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