di Guido Barlozzetti
Pinocchio è Pinocchio. E’ l’evidenza di se stesso, di un personaggio che esce dal libro e cammina nel mondo, dove tutti lo riconoscono e vi associano una visione della vita. E Pinocchio, il burattino di legno che diventa bambino, ritorna nel film diretto da Matteo Garrone.
E’ passato quasi un secolo e mezzo da quando, tra il 1881 e il 1883, Carlo Collodi, che poi era lo pseudonimo del fiorentino Pietro Lorenzini, lo scrisse, e nemmeno con troppo entusiasmo. Ma il successo fu immediato, tale da attraversare le generazioni e i confini geografici.
E, come quasi tutte le idee che toccano il cuore incuranti del tempo e dello spazio, un’intuizione semplice, sospesa tra la fantasia e la realtà, capace di volare nella favola e di atterrare alla fine coi piedi – non più di legno – sulla terra: un burattino che prende vita, l’inanimato che si anima per un prodigio, un padre solo, vecchio e malmesso, Geppetto, che fa il falegname, come San Giuseppe.., vorrebbe un figlio, e il figlio che gli esce storto, scappa via e ne combina di tutti i colori passando da una scorribanda all’altra, sempre a rischio della vita, perché non smette di incontrare manigoldi, perché lo impiccano, perché si ritrova trasformato in ciuchino e finisce in un circo, salvo tuffarsi in mare, essere risucchiato da una balena al cui interno, tanto per chiudere il cerchio, ritrova il padre Geppetto e, con l’aiuto della Fata Turchina e finalmente disciplinato, diventa bambino.
Una favola bellissima, così familiare e suggestiva che ogni tanto il cinema e la televisione sentono il bisogno di tornare a raccontare del burattino Pinocchio, di riproporne ancora una volta le sue avventure diventate canoniche e il coro di personaggi che lo circondano.
Insomma, Collodi ci ha donato un eroe, una trama e una compagnia che sono entrati nell’immaginario collettivo e nella quotidianità del linguaggio, al punto da ritornare nella realtà. A chi non è capitato di usare la metafora del Paese dei balocchi o del naso che si allunga a dire le bugie, oppure di nominare la Fata Turchina, il Gatto e la Volpe, il Grillo Parlante o Lucignolo come esempi di una tipologia umana, sintesi icastica e immediatamente chiara di un modo di comportarsi.
E’ dunque naturale che sul palcoscenico delle feste arrivi un altro Pinocchio. Sono tanti i precedenti da quello in animazione di Walt Disney a quello televisivo (1972) di Luigi Comencini, con Pinocchio/Andrea Balestri, Geppetto/Nino Manfredi, Gina Lollobrigida/La Fata Turchina, Vittorio De Sica/il giudice, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia nella pelle del Gatto e della Volpe.
Questo Pinocchio è firmato da Matteo Garrone, con grande cast e uno sforzo produttivo inconsueto per le nostre misure cinematografiche.
Dunque con tante ambizioni, per cui è naturale chiedersi cosa possa aggiungere a quello che già sappiamo, quale altra piega della storia possa far emergere, per non trovarsi a ripetere semplicemente il copione conosciuto.
Garrone dice di aver voluto fare un film per i bambini e per tutti e, in effetti, ha spinto molto sulla natura animal-umana dei personaggi e sulla loro capacità di impressionare, che si tratti del Mangiafuoco imponente, cupo e oscuro di Gigi Proietti, della coppia di briganti male in arnese e incappottati, della Volpe di Massimo Ceccherini – che ha collaborato con Garrone nella sceneggiatura – e del Gatto di Rocco Papaleo, del giudice-scimpanzé di Teco Celio, del corpaccione del tonno che ha la faccia rassegnata e malinconica di Maurizio Lombardi o della donna-lumaca dal guscio che non finisce più di Maria Pia Timo. Creature che non escono da effetti speciali ma dalle mani dei truccatori, come nel cinema di una volta, figure al limite del mostruoso spesso riprese in primo piano, in modo da accentuarne la suggestione.
Garrone vuole colpire l’immaginazione, come già era accaduto ne Il racconto dei racconti, che aveva tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile.
Dalla tribù grottesca si stacca Geppetto interpretato da Roberto Benigni che gli dà la dolcezza di un povero artigiano, lui che era stato Pinocchio nel film che aveva anche diretto nel 2002.
Sarebbe però sbagliato pensare a un film rinserrato in una galleria degli orrori soffocante e ansiogena, a una sequela di apparizioni sconvolgenti, basti ricordare le scene ariose in cui il burattino cammina nei campi e soprattutto la descrizione minuziosa del paese contadino, gli interni delle case, delle botteghe, delle osterie, l’umanità spesso egoista che vi si rinserra e non vede chi muore di fame.
Garrone in questo conferma di sapersi perfettamente destreggiare sulla linea della fantarealtà, come già nella follia di Reality e nell’incubo di Dogman.
Da lì, da quel mazzo di case prende il via la peregrinazione spavalda di Pinocchio e la serie di prove che gli tocca affrontare. Garrone si attiene alla storia e il cinema gli diventa lo spazio favoloso in cui ricrearla e in cui lanciare una sfida: il cinema, cioè, come dimensione in cui si possa ancora uscire dalla realtà quotidiana, dalle isterie tecnologiche e dalla volgarità tracimante, e volare in un universo alternativo dove i mostri si manifestano e qualcuno tira i fili dello spettatore/burattino e con lui del congegno che muove paura, stupore, meraviglia…
Si vede la cura con cui si è perseguito l’effetto, dalle immagini e dalle luci di Massimo Brühl ai costumi di Massimo Cantini Parrini, che vestono non solo i personaggi ma il film; dalle scenografie di Dimitri Capuani al trucco di Mark Coulier. E l’impresa di Garrone è di avere tenuto tutto insieme, di avere dato un tono visivo e sonoro, di avere amalgamato favolosamente Pinocchio.