di Guido Barlozzetti
“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. Umberto Eco conclude con una citazione dal De contemptu mundi di Bernardo Cluniacense, Il nome della rosa, un romanzo che di citazioni dette e non dette, vestite e travestite, abbonda creando un gioco ininterrotto di rimandi.
Quella frase sposta all’indietro, nei secoli delle grandi controversie della Scolastica medievale, in cui si affrontavano i realisti e i nominalisti, quelli cioè che vedevano e postulavano il fondamento oggettivo delle cose e quelli che le cose rinchiudevano nella prigione del linguaggio. I nomi…
Adesso ci riporta in quel mondo e nella versione affascinante e multistrato che ne dà Eco la versione televisiva del romanzo, quattro serate (ciascuna in due puntate) dirette da Giacomo Battiato, un cast di stelle, si chiamano così, con John Turturro che impersona il francescano Guglielmo di Baskerville, Rupert Everett che si cala nei panni del domenicano Bernardo Gui e Damian Hardung/Adso da Melk. E poi Fabrizio Bentivoglio, Greta Scarano, Stefano Fresi, Roberto Herlitzka... Alla base un soggetto che Andrea Porporati ha discusso con lo stesso Eco (ricordiamo il suo favore a un coinvolgimento della Rai nella quale, all’inizio dei Sessanta, cominciò la sua avventura intellettuale), e una sceneggiatura scritta con Battiato, Turturro e Nigel Williams.
Abbiamo detto romanzo multistrato per sottolineare la difficoltà di incasellare il lavoro di Eco che ha costruito un’opera in cui trama e filosofia si danno la mano, una storia gialla e thriller con una serie di delitti che avvengono all’interno di un’abbazia e Guglielmo che è il detective e però anche uno dei due sfidanti nella Disputa che lì si deve tenere tra il pauperismo dei Francescani, sostenuti dall’Imperatore, e l’istituzionalità dei Domenicani, protetti invece dal Papa.
Non basta perché il cuore dell’abbazia è costituito da una Biblioteca che per un verso è inaccessibile, se non agli addetti, per l’altro si dipana come un labirinto che è difficile non ricollegare alla passione semiotica di Eco, al gioco interminabile dei segni, alla semiosi illimitata dell’interpretazione. Ciò che fa del romanzo un saggio in forma di narrazione.
Un libro con la maiuscola, per tanti versi un meta-libro, un libro al quadrato con sensi che si accumulano l’uno sull’altro e vengono a coincidere nello stesso segno, una margherita che resta la stessa e al tempo stesso è costituita dalla ricchezza di ciascun petalo, ambigua come può essere la loro somiglianza e l’individualità di ciascuno.
Già portare Il nome della rosa al cinema era stata un’impresa. Se l’era assunta Jean-Jacques Annaud con Sean Connery/Baskerville e Ben Kingsley/Gui. Fu un grande successo. E naturalmente si aprì subito la fatidica Disputa su cinema e letteratura, sul problema della fedeltà che un film debba o non debba avere rispetto al libro da cui è tratto, con i fautori della libertà creativa contrapposti ai difensori del Testo e la coda dei giudizi, se fosse più bello il libro o il film, se il primo fosse intraducibile nella sua ricchezza o se il secondo fosse invece un tradimento necessario, da giudicare nella sua autonomia e nella sua testuale coerenza di narrazione.
Discussioni che si sono riaperte anche in quest’occasione, con la Rai che ha deciso di distendere, nella continuità di una serie, le pagine di Eco nell’ambito di una prestigiosa coproduzione internazionale con 11 marzo Film, Palomar e Tele München Group.
Un’operazione delicata, molto diversa nella durata dal film, due ore contro circa 400 minuti. Dunque una dilatazione del racconto che ha consentito di ramificare, approfondire e dare spazio a vicende e aspetti che il film aveva necessariamente sintetizzato o eliminato, basti pensare – per esemplificare – al rilievo che nella serie vengono ad assumere Fra Dolcino e la sua eresia e anche un versante al femminile che nello stesso libro di Eco non trovava un largo respiro.
La regia si muove tra i totali en plein air, con il verde delle selve e il nero delle nuvole, e gli interni tagliati dalle fiamme, primi piani e dettagli.
Per il pubblico una sfida e un gioco. Immergersi nel racconto, seguirne il linguaggio che romanda a quello della serialità internazionale, ritornare a un’epoca e a una storia che parla di ragione e autorità, di tolleranza e di libertà, e della luce insostituibile e vitale della cultura.