L'accordo tra Vaticano e Cina per la nomina finalmente congiunta dei vescovi esce dalla cronaca e segna un punto di passaggio nella complicata e spesso drammatica storia dei rapporti fra Santa Sede e governo comunista cinese. L'accordo è stato firmato a Pechino da monsignor Antoine Camilleri, sottosegretario pontificio per i rapporti con gli stati, e da Wang Chao, viceministro degli esteri cinese. Vengono riammessi anche sette vescovi nominati dal governo cinese senza mandato pontificio. Una buona notizia per i dieci milioni di cattolici.
Sembra un inizio, fortemente voluto dal Papa Francesco e realizzato dalla diplomazia del Segretario di Stato Parolin, e potrebbe aprire una nuova fase non più scissa tra una chiesa patriottica, controllata dal regime, e una costretta nella clandestinità per svolgere il culto e sfuggire alla repressione delle autorità. Ed è da questa che arrivano anche contestazioni e addirittura accuse di tradimento, in particolare dall'ex arcivescovo di Hong Kong Joseph Zen, ostile all'accordo, considerato una resa e un avallo a una storia di violenze tutt'altro che finita, la fede contro la real politik.
Dunque, un quadro molto frammentato rispetto al quale, se l'intesa raggiunta è importante, non si può nascondere quanto il filo appena cucito sia fragile, con la possibilità di radicalizzazione da una parte e dall'altra: del regime, che si potrebbe fare forte dell'accordo con la Santa Sede, e dei dissidenti cristiani nei confronti di quello che ritengono un cinico compromesso.
Che un potere ispirato al comunismo e una chiesa come quella cristiana e cattolica siano in linea di principio due ambiti istituzionali contrapposti e, sul piano dei principi, antitetici è una constatazione che appartiene al senso comune. Il materialismo di contro alla trascendenza, l'obbedienza assoluta al Partito di contro alla coscienza che elegge a giudice interiore Dio e crede nella Rivelazione.
Non è solo un ragionamento astratto, la storia di questi decenni testimonia di condizionamenti, censure, intrusioni e violenze, ed è su questo sfondo che è opportuno collocare l'accordo - ancorché provvisorio - raggiunto.
Un passo indietro per capire.
Bisogna risalire al VII secolo dopo Cristo per trovare in Cina una traccia cristiana nella versione nestoriana, e cioè secondo la professione del vescovo di Costantinopoli Nestorio che attribuiva a Cristo due nature, umana e divina, e le distingueva l'una dall'altra. Le persecuzioni cominciano subito.
Dal '200 arrivano le missioni con i monaci francescani e poi i gesuiti, valga per tutti la figura di Matteo Ricci, abile e ispirato evangelizzatore che non si presentò come uno straniero che veniva a imporre e sconvolgere, ma seppe adattarsi alle condizioni culturali e religiose della Cina con uno straordinario rigore trasformistico e un approccio trasversale alla rigidità confessionale.
Vicende alterne, che diventano terribili quando in Cina nel corso dell'800 s'inasprisce fino a esplodere il conflitto tra tradizionalisti e modernisti, di cui i cristiani diventano vittime, fino a recuperare una coesistenza relativamente pacifica con la Repubblica. Alla fine degli anni Trenta del secolo scorso i fedeli superano i tre milioni.
Con l'avvento del comunismo, dichiaratamente ateo e semmai tollerante solo con la religione cosiddetta naturale, comincia una storia di esclusione violenta. Nonostante tentativi di avvicinamento al regime, sia da parte cattolica che protestante, la repressione non rallenta, seminari chiusi, espulsione dei missionari, prigionìa e campi di lavoro. Fino a quando, nel 1957, nasce all'ombra del Partito l'Associazione patriottica cattolica cinese, solo in apparenza autonoma, in realtà controllata nelle decisioni, dal catechismo alla nomina dei vescovi. Ovvio che non ci sia nessun rapporto con il Vaticano, con cui tra l'altro la Cina ha interrotto ogni relazione dal 1951, da quando cioè la Santa Sede ha riconosciuto Taiwan.
La Chiesa patriottica ha come contraltare la chiesa clandestina, perseguitata e duramente colpita. Ancora Benedetto XVI scrive una lettera in cui dichiara inaccettabile una chiesa assoggettata allo stato.
Con Xi Jinping e Papa Francesco le cose cambiano. Iniziano a cambiare. Un Presidente, ancorché quintessenza del regime fondato sul Partito, inaugura una stagione di apertura sul piano internazionale, dove conta l'immagine del Paese e dunque certe asprezze vanno in ogni caso rimodulate (il che non implica di per sé un passo in avanti nella questione dei diritti civili, delle libertà individuali e del pluralismo, anzi…). Sul soglio di San Pietro Papa Francesco, che ha conosciuto la difficile convivenza dei cristiani con il regime militare dell'Argentina e che alla rigidità dell'ortodossia preferisce il pragmatismo delle relazioni basate sulla fiducia, il rispetto, la collaborazione: "Il dialogo è un rischio - ha detto il Papa - ma preferisco il rischio che non la sconfitta sicura di non dialogare".