di Guido Barlozzetti
Non deve essere un rituale ricordare Andrea Camilleri, morto a 93 anni, una vita che ha attraversato le più diverse esperienze dello spettacolo e che ha prodotto una parte importante del nostro immaginario, letterario e televisivo.
Non è stato solo uno scrittore, ma qualcosa di più e di diverso. Non un'ombra nascosta sullo sfondo, ma una figura potente che con l'avanzare degli anni si è imposta all'attenzione di tutti, fino a diventare un personaggio, un amico, una voce anche – e fortemente – dissonante, ma sempre nel senso più profondo in cui si testimonia dell'umanità, perché i personaggi non vivono solo nei romanzi o nei film. Ci sono degli uomini che per un concorso misterioso di circostanze accompagnano la vita quotidiana di tutti, più o meno, anche di quelli che non la pensano come loro e magari li detestano pure. Diventano personaggi come quelli che hanno creato, nel senso che entrano in una dimensione parallela, che per un verso ne semplifica i tratti, per l'altro, però, gli riconosce una consonanza profonda e gli attribuisce una voce che evoca emozioni e sentimenti antichi. Andrea Camilleri era il cerchio di se stesso e delle sue storie. E le sue storie erano le tante stagioni della sua vita, Porto Empedocle, dove nasce, le biblioteche dell'adolescenza, quella di casa e quella di Enna, dove conosce tante storie.., un'aria che hanno respirato Pirandello, Sciascia, il Gattopardo.., l'Accademia di Arte Drammatica a Roma, la Rai e il lavoro di delegato alla produzione nel tempo degli sceneggiati, Maigret, Sheridan, Laura Storm..., e a più di cinquant'anni la scrittura, i romanzi, di cui Montalbano è stata solo la punta emergente, ancorché la più clamorosa e amata dal pubblico.
Le sue pagine e la sua voce che le racconta. Inconfondibile, un graffio incatramato dalle sigarette e insieme gli strati di una sicilianità remota, fatta come diceva lui della sua isola e degli isolani, delle tredici o quattordici dominazioni diverse che vi si sono succedute, di una condizione cioè che ha generato un punto di vista curioso delle cose, con il sentore di una precarietà irresolubile da cui può uscire il rovello inquisitorio di Sciascia come la spirale nell'assurdo e nella follia di Pirandello. I Siciliani, diceva, dal "carattere prismatico e assolutamente contraddittorio". La sua voce che Camilleri era diventato la figura della sua vecchiaia, quasi che non potessimo più immaginarcelo giovane, o che non lo fosse mai stato, con le sue nonagenarie primavere, in un'epoca che dei vecchi sembra non sapere cosa farsene, e lui lì con la sua mole imponente, i passi affaticati e l'occhio sempre più debole, ma proprio per questo sempre più acuto. Come quello di Tiresia, il vate cieco che abita nell'aldilà e profetizza dell'aldiqua, portato non a caso in scena da lui in una di quelle serate al chiaro di luna, la voce che emerge da un'ombra e si spande nell'aria quasi venisse da un altrove, perché chi non vede, vede di più e richiama al mistero della vita in cui tutti si riconoscono, devono riconoscersi.
Ecco questa maestà gli va riconosciuta, una maestà… maestosa e tagliata dalla geologia di quella voce ruvida, testimonianza diretta di un attrito arcaico, primordiale. Quella che gli ha fatto dire che è "saggezza accogliere la morte come un atto dovuto" o pensare alla sua vita senza un rimpianto e con l'ironica consapevolezza dei paradossi che vi si annidano.
È questa maestà, come quella indolente dello scirocco che tanto amava, che ha lo stesso senso del relativo e dell'assoluto, che ritroviamo in Montalbano, che sa della fatalità del male e della necessità che qualcuno metta le mani nella lordura del mondo. Il commissario come una sua longa manus, protesi efficiente e disincantata almeno nella dimensione del racconto, dove si possono inventare paesi come Vigata dove si moltiplicano gli omicidi e c'è qualcuno che se non riesce a evitarli almeno assicura alla giustizia i colpevoli, sapendo che comunque la lacerazione è avvenuta e nulla può attenuare il dolore degli uomini.
Ecco, Camilleri era il Grande Vecchio che continuava a raccontare, in un prodigio che sembrava inesauribile di storie. Ancora ieri è uscito un altro dei casi affrontati da Montalbano, l'ultima puntata di un albero rigoglioso di cui il commissario è solo uno dei rami, circondato da una chioma di narrazioni che affondava nel passato della Sicilia, nelle sue trame di amori e poteri, nei suoi circoli viziosi e imprevedibili, con la morte assassina sempre in agguato e la corda della pazzia in agguato. Se la vita non redime, il racconto ha la virtù di riscattarla solo perché la rappresenta e la mette in una trama che ha la forza e la giustificazione di sé.
E non c'è racconto senza qualcuno che racconti, che si ostini a raccontare e lo faccia con la vocazione profonda, ancestrale, che le storie portano con loro, di parlare a tutti, di coinvolgere nella loro rete che è fatta della reciprocità di un dono, di qualcuno che narra e di qualcuno che ascoltando dà senso proprio a quell'atto che si protende, alla voce che lo diffonde...
E' stato un grande scrittore? O invece no, come qualche critico sussurra? Tutti i giudizi sono legittimi, a volte, va ricordato, il successo può essere scambiato per un irrimediabile compromesso e semplificazione e spesso assistiamo al paradosso di chi richiama ancora alla necessità di una saldatura tra letteratura e popolo (ma quale? quello che vota o la sua astrazione concettuale?) e poi di fronte a certi esiti sospetta del successo. E tuttavia sarebbe difficile raccontare questi anni senza il suo commissario e la sua voce.
E' una grande e profonda responsabilità raccontare e forse questo è il dono che Camilleri ci ha fatto facendolo a se stesso. "Se potessi – aveva confessato più volte - vorrei finire la mia carriera seduto in una piazza a raccontare storie e alla fine del mio 'cunto', passare tra il pubblico con la coppola in mano". Montalbano oggi piange, ma domani sarà ancora a Vigata, nel suo commissariato, o affacciato sul mare dalla terrazza della casa di Puntasecca.