di Guido Barlozzetti
E’ un film diverso da quello che ci si potrebbe aspettare da Marco Bellocchio, almeno sembra a un primo sguardo e pensando che racconta di Tommaso Buscetta, il “pentito” che con le sue rivelazioni contribuì alla costruzione del maxi-processo di Palermo e al primo grande scossone giudiziario nei confronti di Cosa Nostra.
Buscetta è una figura che ha occupato a lungo le pagine della cronaca, all’incrocio tra la criminalità organizzata e, con le sue ultime confessioni in particolare, la politica, dunque in un territorio che sembrerebbe lontano dallo scandaglio analitico del cinema di un autore come Marco Bellocchio.
Un percorso lunghissimo, il suo, iniziato con I pugni in tasca e La Cina è vicina, due film che segnarono uno stacco brutale nell’atmosfera consensuale, ancorché articolata tra la commedia e la generazione degli autori classici, i Visconti, i Fellini, gli Antonioni, per poi proseguire sempre nell’esplorazione del grumo contraddittorio delle passioni e del potere con cui convivono, e dell’interrogazione su un’identità che deve fronteggiare il compromesso e la potenza dei dispositivi e dei contesti in cui si trova costretta a muoversi.
Per Il traditore, prodotto da Beppe Caschetto e da Rai Cinema, Bellocchio sceglie la strada del biopic, dandogli la complessità di linguaggio di cui è capace, con momenti da docufiction che rischiano anche di risultare dissonanti rispetto invece alla domanda che il personaggio Buscetta porta con sé, con un’oscillazione tra l’astrazione dei quadri che via via si susseguono e le punte espressive da melodramma che contrappuntano alcuni passaggi, quasi a enfatizzare la fatalità ineluttabile e tragica di ciò che sta accadendo.
E’ un lungo tratto della vita di Buscetta quello che il film ricostruisce. Inizia con una grande festa -. Come Il Padrino o Il Cacciatore - quella in cui stanno ancora tutti insieme, i vecchi padrini e quelli scalpitanti, come Riina, pronti a farne strage, le famiglie che si abbracciano, un attimo prima che le pistole e i mitra aprano la stagione irreversibile della resa dei conti. Buscetta non è un boss, ma gravita all’ombra dei vecchi poteri, con un’intelligenza che lo ha messo in grado di conquistarsi una posizione di rispetto e in una sorta di ambigua lateralità che lo ha portato a vivere in Brasile con la seconda moglie, brasiliana, appunto, e i figli.
La mattanza ordita dai corleonesi e da Riina, insieme con l’arresto e l’estradizione in Italia, segnano una discontinuità che determina Buscetta ad accettare la proposta di collaborazione che gli rivolge il giudice Falcone. Dopo di che il film racconta la preparazione del maxiprocesso, le sedute surreali e scomposte nell’aula dell’Ucciardone, fino alla sentenza che invece di debellare la mafia ne eccita la spinta eversiva e vendicativa con l’attentato di Capaci. A quel punto Buscetta, alza il tiro e coinvolge i vertici dello Stato a cominciare da Andreotti. Non gli resta altro che la vita clandestina e sotto copertura che non verrà conclusa dal colpo della vendetta ma dalla malattia inesorabile.
Andamento cronologico, dunque, capitoli di una storia che però diventano una sequela di confronti, di scene madri con se stesso e, via via, con Falcone, Riina, Pippo Calò, Luciano Liggio e con Coppi, l’avvocato di Andreotti. Bellocchio sa che sta toccando una materia incandescente: come affrontare la personalità di quello che resta comunque un criminale? Come evitare il rischio di una giustificazione o addirittura di una complicità? Lo fa cercando di rendere l’ambiguità di Buscetta, non risparmiandogli anche contraddizioni e reticenze, il che se rappresenta una scelta etica, trasmette una sorta di smarrimento allo spettatore.
E’, ci pare, la conseguenza di una scelta che guarda da fuori cercando di penetrare dentro il personaggio, con gli scarti e i vuoti che ciò comporta. Lo fa soprattutto facendo di Buscetta la figura della contraddizione enunciata nel titolo, Il traditore. Già, il pentito non accetta di essere marchiato con l’infamità del tradimento, semmai denuncia i traditori, quelli che hanno tralignato rispetto allo spirito (quale? Gli chiede il giudice Falcone) di Cosa Nostra, riproponendo il luogo comune della onorata società che risparmia i bambini e non traffica droga.
Pierfrancesco Favino dà la faccia e il corpo, la stazza e il logorìo interiore a questo traditore che vorrebbe una redenzione e resta irredento, alla fine nell’impossibilità di uscire dal dispositivo che lo ha fatto essere quello che è. E gli dà anche la lingua, un siciliano che non ha nulla di stereotipato e costringe addirittura ai sottotitoli. Con lui vanno ricordati l’esagitazione schizzata di Stefano Bontade/Luigi Lo Cascio, il sottile e mellifluo Pippo Calò di Fabrizio Ferracane, l’impassibile Riina di Nicola Calì, il protervo Liggio di Vincenzo Pirrotta.
Un’ultima notazione. Il film è immerso nel nero, le scene si aprono e si chiudono su quel buio, vi prendono luce e colore come in un quadro di Caravaggio, per poi precipitare nell’oscurità. Quella che circonda Buscetta in cui finisce qualunque fotogramma del cinema.