di Guido Barlozzetti
Un pilota freddo, paragonato spesso a un robot, duro e leale, segnato da un incidente terribile da cui si riprese con feroce determinazione.
È l’immagine che ci lascia Niki Lauda, morto a settanta anni, artefice in Formula 1 di una delle più avvincenti stagioni della Ferrari, con cui vinse due mondiali, nel 1975 e nel 1977, a cui va aggiunto il titolo con la McLaren nel 1984. In tutto 125 gran premi di cui 25 vinti. Poi, una stagione di consulente-testimonial, culminata in questi ultimi anni nella presidenza non esecutiva – ma anche decisiva in certi orientamenti strategici – della Mercedes.
Una vita legata allo sport , ma proprio per la forza della personalità capace di imporsi in un circuito della comunicazione e dello spettacolo che tutto consuma. Lauda è Lauda e la sua identità s’imprime nella memoria collettiva e oltre l’effimero del tempo, come accade a pochi: Ascari, Nuvolari, Fangio, Stewart, Clark, Schumacher, Senna... Come loro, uno che ha messo in gioco se stesso, alla ricerca della vittoria, con il realismo incosciente di chi corre a trecento all’ora, ogni attimo al limite e l’ombra del pericolo che può essere mortale. Un campione, una ruota davanti all’avversario.
Un’immagine controversa, amata e detestata, difficile restare indifferenti, e proprio per questo capace di entrare nel cuore di generazioni di tifosi e di uno sport che esalta il rischio e il coraggio. Lauda lo affrontava con la durezza di un carattere che non cercava mai compromessi e si esprimeva con una franchezza che poteva anche essere brutale, ma sempre diretta e sincera. Così si spiega il rapporto complicato con una personalità altrettanto forte, poco incline ai giri di parole e alle cerimonie, quella di Enzo Ferrari che lo accolse a Maranello nel 1974, dopo undici anni di insuccessi, e misurò subito gli spigoli di quel giovane austriaco, capace di dirgli che la Ferrari che si era ritrovato a guidare era “una macchina di m...”.
Questa asprezza fu la condizione dei successi raccolti dalla scuderia con Lauda e, insieme, di un divorzio che arrivò dopo solo quattro anni. Lauda vinse due mondiali, combattendo con rivali che si chiamavano James Hunt, Emerson Fittipaldi, Ronnie Peterson, Clay Regazzoni... In mezzo, un incidente terribile sul circuito del Nurburgring, quando dopo un’uscita di strada la macchina prese fuoco – allora i piloti erano fasciati di benzina... – e fu salvato a stento dall’intervento di Arturo Merzario e Brett Lunger.
Ne avrebbe vinto un altro di titolo, nel 1984, con la McLaren, a dimostrazione di una forza di volontà capace di risorgere e rilanciarsi al massimo livello. Poi. lasciò le corse, con decisione improvvisa. Anche qui con la sensazione di una coerenza che si contrattava solo con se stesso. Come accadde anche in quel terribile 1976, quando era tornato dopo un mese e mezzo alle gare. Nel Gran Premio del Giappone, era in testa al Mondiale, dopo due giri si ritirò per le difficoltà dovute alla pioggia e non cercò espedienti per mascherare la decisione. A James Hunt, un rivale così diverso nel temperamento bastò arrivare terzo, dietro a Mario Andretti e Patrick Depailler, per conquistare il primato. Un confronto di cui subito s’impossessò la retorica dello sport e che è stato raccontato nel 2013 nel film Rush con Daniel Brühl nella parte di lui e Chris Hemsworth in quella di Hunt.
Lo abbiamo visto in questi anni nel box della Mercedes, con il cappellino rosso a coprire le tracce lasciate da quel giorno tremendo. Un padre nobile, era lui che aveva voluto Lewis Hamilton nella scuderia, ascoltato e rispettato. Parlava volentieri ai microfoni, sempre con la sintesi della chiarezza e, sotto sotto, una vena d’ironia. Non doveva essere contento di quella immagine di durezza calcolatrice, da computer senza sentimenti, che gli veniva attribuita. Lo aveva confessato: “Non ho mai fatto programmi nella mia vita, ho sempre preso decisioni sul momento. Io sono per l’improvvisazione”. Quella che forse lo ha guidato anche in una vita privata tenuta sempre nella riservatezza. Dai rapporti tumultuosi con la famiglia che non approvava la scelta dell’automobilismo, ai matrimoni, l’ultimo con una hostess della sua compagnia area, la Lauda Air, che gli aveva donato un rene nella dura battaglia contro una malattia che alla fine ha vinto.