di Guido Barlozzetti
"Il meglio è alle mie spalle, ma mi sto divertendo molto", ha detto Roger Federer nel corso degli Australian Open che si stanno svolgendo a Melbourne.
Ha ragione. Sarebbe molto difficile ripetere e migliorare quello che ha fatto sui campi da tennis di tutto il mondo in venti anni di carriera dai numeri incredibili. 20 tornei del cosiddetto Grande slam, il circuito delle competizioni-mito del tennis, che comprende Wimbledon, dove Roger ha trionfato otto volte, l'ultima nel 2017, senza perdere nemmeno un set, il Roland Garros di Parigi (una volta), gli Open d'Australia (6) e gli U.S. Open (5). Uno degli otto giocatori di sempre che hanno vinto tutti i tornei del Grande Slam. Per 310 settimane è rimasto al vertice del ranking Atp, la classifica dei giocatori professionisti in base ai punti via via accumulati nella stagione. E ancora: strisce di vittorie impressionanti come nel 2005, con ottantuno match vinti e solo quattro persi, il maggior numero di finali giocate, perfino una Coppa Davis nel 2014.
Roger è considerato da molti il miglior giocatore della storia del tennis, al punto da meritarsi i titoli di King Roger e di The Swiss Maestro.
Ora sappiamo che le classifiche di merito possono essere sempre opinabili, ma non è certo un caso la concordanza dei giudizi che lo riguardano.
Lo guardi in campo e colpiscono immediatamente l'eleganza connaturata dei gesti, il controllo totale, la misura e la correttezza nel rapporto con gli avversari. Nel gioco è uno spettacolo per chi ama la bellezza del gesto in uno sport che nella sua evoluzione si è andato sempre più affidando alla potenza muscolare esaltata dal progresso delle racchette.
Roger, da questo punto di vista, è un classico e non solo perché ricorda come si giocava una volta, la delicatezza del tocco, l'invenzione geniale di un colpo, ma perché è un unicum impareggiabile in un tennis costruito ormai come una macchina di appuntamenti seriali, dominati dal marketing e dalla televisione, con giocatori ridotti ad automi-pallettari che sparano bordate da 220 km al servizio e si mettono sulla linea di fondo in un ritmo vorticoso di colpi a chi cede per ultimo.
Lui sta dentro questo tennis ma ne emerge con la diversità di chi non si fa assoggettare al corso delle cose e impone comunque se stesso, la sua qualità ogni volta sorprendente, fatta di agilità, potenza e grazia. Sì, grazia, perché non saprei come definire altrimenti i suoi colpi e il modo naturale con cui li porta, una sorta di replica nel tennis della "sprezzatura", della disinvoltura, e cioè il fare qualunque cosa non facendone avvertire lo sforzo e la maniera, di cui nel Cinquecento scriveva Baldesar Castiglione a proposito del Cortegiano.
Un giocatore completo, nel dritto, nel rovescio perfezionato nel tempo e diventato temibile come l'altro, in una battuta che, se non è al livello dei "bombardieri", è tuttavia capace di precisione e rotazioni imprevedibili. Perché il segreto di Roger è nell'avanbraccio e nel polso, in una macchina meravigliosa che, governata dall'intelligenza del gioco, è in grado di anticipare l'avversario, di variare il colpo all'ultimo istante, di cambiare gioco sovvertendo ogni schema e consuetudine, e non restando mai in difficoltà qualunque sia la tattica di chi ha di fronte. Tanto meglio se si trova a giocare sul cemento o sull'erba che valorizzano la velocità della pallina a differenza della terra battuta.
Sono memorabili gli scontri con i grandi avversari che si è trovato a fronteggiare: l'estro di Rafa Nadal, da una parte, e la potenza tambureggiante di Novak Djokovic. Grandissimi anche loro, ma non al punto di raggiungere quell'equilibrio superiore, in qualche modo le virtù dell'uno e dell'altro, che invece il misterioso dio del tennis ha deciso di concentrare in un giovanotto nato a Basilea, nella Svizzera tedesca. E adesso non stiamo a tirare fuori i luoghi comuni sul paese dei cantoni e su quanto siano smentiti da Roger...
Sempre e comunque Federer anche quando gli capita di perdere, adesso che ha superato i 37 anni qualche volta di più, ma comunque ancora con l'aura del grande favorito, quella con cui si è presentato al primo appuntamento importante dell'anno: gli Australian Open. Dove gli è capitato anche di restare bloccato all'ingresso da un addetto ai controlli che non vedeva sulla sua maglietta il badge per accedere. Roger non ha fatto una piega, ha aspettato che arrivasse il coach e che lo esibisse a quel custode irrigidito nel mansionario. E con la consueta calma è sceso in campo.