VITE E FATTI MEMORABILI (ALMENO PER ORA)

VITE E FATTI MEMORABILI (ALMENO PER ORA)

Il successo di Bohemian Rhapsody

di Guido Barlozzetti

 

Ha incassato 750 milioni di dollari in tutto il mondo Bohemian Rhapsody ed è il biopic movie più visto al cinema.

Perché un successo così clamoroso, a dispetto anche di critiche che non hanno certo salutato il film come un capolavoro e ne hanno, anzi, evidenziato la scarsa originalità? Che cosa è scattato nel pubblico, soprattutto il più giovane, al punto da riempire le sale e trasformare la storia dei Queen, e soprattutto di Freddie Mercury, in un campione d'incassi e in un fenomeno di costume?

Una risposta immediata c'è. Ed è lui: Freddie. Perché Bohemian Rhapsody racconta la parabola luminosa e funebre del suo sogno musicale.

Lo segue dagli inizi, da quando nel 1970 lavorava come facchino all'aeroporto londinese di Heathrow e tentava di proteggere la sua passione per la musica dai divieti del padre, che avrebbe voluto riportarlo alla tradizione parsi, perché Freddie si chiamava in realtà Farrokh Bulsara ed era nato a Zanzibar, in quella comunità.

E' allora che conobbe il chitarrista Brian May e il batterista Roger Taylor, e si aggrega agli Smile. Di lì a poco, diventeranno i Queen con l'aggiunta definitiva, un anno dopo, del bassista John Deacon.

Il film intreccia le vicende del gruppo, e quelle personali di Mercury, la sua eccentricità, la scoperta dell'omosessualità, la spirale del successo, gli eccessi sex-drug-alcol, le tensioni crescenti nella band, fino alla decisione di abbandonarla e di provarsi in un percorso da solista che però, dopo un paio d'anni, interrompe per tornare con i compagni storici, con i quali affronta l'evento della carriera, sua e dei Queen: il grande concerto Live Aid promosso da Bob Geldof nel 1985. Freddie a quel punto sa di essere malato di Aids e la sua ultima esibizione nello stadio di Wembley diventa una sorta di apoteosi e di riconciliazione finale.

Basta questa sintesi per capire il concentrato di temi che hanno esercitato un'attrazione irresistibile sul pubblico: un divo della canzone che muore giovane, a quarantuno anni, l'ostinata ricerca di se stesso e della propria identità, l'ambivalenza sessuale, le contraddizioni del successo e il cortocircuito infernale che porta con sé, il prezzo da pagare per la propria diversità, la scissione tra la dimensione privata e personale e l'immagine pubblica, la vita come una corsa senza freni e la fatalità che lo attende.

Di Freddie Mercury ricordiamo la voce inconfondibile, stupefacente per estensione e registri, la sua straordinaria attitudine di front man, di performer padrone assoluto del palcoscenico, le movenze di un corpo fatte apposta per coinvolgere nell'evento di un concerto.

Dalla sua morte il suo mito non ha cessato di crescere. Brani inediti sono stati via via proposti quasi a voler tenere in vita il simulacro di un artista, a protrarne la carriera nell'immaginario del pubblico (con, va detto, un'accorta e lungimirante strategia di marketing).

Mercury ha continuato a vivere e il film è arrivato al momento giusto, a celebrare definitivamente un'esistenza spostata nel sopramondo dello spettacolo globale e che ormai, paradossalmente, non ha più bisogno della vita del suo protagonista.

A interpretarlo, rappresentarlo, mimarlo un egiziano-americano, Rami Malek, cui si deve gran parte del successo del film. Una sfida che poteva essere assai rischiosa e che invece è stata vinta da un attore che, fra le altre cose, avevamo già visto in Una notte al museo e nella serie Mr. Robot.

Malek è arrivato per ultimo. Inizialmente il ruolo era stato affidato a Sacha Baron-Cohen che aveva rinunciato per divergenze con la produzione. Poi si era pensato a Ben Wishaw che però era impegnato nella lavorazione di Spectre. Anche per la regia il cammino è stato tortuoso. Il primo candidato, Dexter Fletcher, ha lasciato il posto a Brian Singer che ha diretto il film, salvo essere sostituito proprio dal predecessore nell'ultima fase delle riprese a causa di contrasti e inadempienze.

Problemi che non sembrano aver pesato sull'esito del film.

Infine il titolo: un pezzo scritto da Freddie Mercury nella sua casa di Kensington che fu giudicato dalla casa discografica, l’Emi, troppo lungo e di non immediata presa, e che invece, programmato clandestinamente per radio, riscosse subito un successo tale da convincere a utilizzarlo come singolo per l'album A Night at the Opera. Ancora controverso il titolo. Forse alludeva alla struttura inconsueta e per nulla tradizionale del brano e, secondo alcuni, all'omosessualità di Freddie Mercury.

 

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