di Guido Barlozzetti
I morti non muoiono mai e, comunque il Festival di Cannes compie 72 anni - un po’ meno dei 76 della Mostra di Venezia - con un grande prestigio e una vetrina/mercato che si affaccia sul mondo.
Nell’affiche una foto del 1954 che ritrae Agnes Varda, scomparsa alla fine di marzo, regista infaticabile, curiosa, che nasce e fiorisce sul tronco della Nouvelle Vague.
Inaugurato da The Dead don’t Die di Jim Jarmusch, la grande festa del cinema andrà avanti fino al 25 maggio quando sapremo chi sarà premiato con la Palma d’Oro dalla giuria presieduta dal regista messicano Alexander Gonzales Inarritu.
Cannes vuol dire l’atmosfera della Costa Azzurra, la Croisette, la Montèe de marches e il tapis rouge su cui avanzano i passi sublimi dei divi e delle dive sotto i flash dei fotografi. E anche questa volta il rituale è stato officiato come si deve e ha offerto il meglio, a cominciare dalla sfilata di moda, un vero concorso a chi cattura l’attenzione per eleganza, trasgressione e cattivo gusto..., ognuno ad addobbarsi nel modo più adatto a far parlare di sé. E così abbiamo assistito alla processione di Eva Longoria, Alessandra D’Ambrosio, Julianne Moore, Izabel Goulart, Sabine Azema, Macha Méril... volti consacrati, aspiranti all’Olimpo e vecchie glorie e tutto il cast del film di Jarmush: Bill Murray, Chloe Sevigny, Tilda Swinton, Selena Gomez, Steve Buscemi, Iggy Pop e Tom Waits. Con loro il regista si è molto divertito a giocare con la tradizione di genere degli zombies e il suo nume tutelare George A. Romero.
Il direttore del Festival, Thierry Fremaux, ha sintetizzato la linea di quest’anno: “Amore e rivolta, romanticismo e politica”. Niente più che un filo per tenere insieme i 21 film della Selezione ufficiale. L’ambiguità sessuale di Matthias and Maxime di Xavier Dolan, il bilancio di una vita di un regista messo in scena con Antonio Banderas e Penelope Cruz da Pedro Almodovar (Dolor y Gloria), i dubbi degli adolescenti di Abdellatif Kechiche in Mektoub, My love, la precarietà delle famiglie dopo i disastri della finanza in Sorry We Missed You di Ken Loach, la ricerca di un’identità e di una terra da parte di un giovane palestinese in It must be Heaven di Elia Souleiman, la collaborazione di Tommaso Buscetta con Falcone e Borsellino ne Il traditore di Marco Bellocchio, una creazione botanica dai risvolti inquietanti (Little Joe di Jessica Hausner), ancora una fuga, un gangster e una prostituta in The Wild Goose Lake di Yi Nan Diao, l’indagine di un commissario in Roubaix, une lumière di Arnaud Desplechin, il bisogno di migrare e un matrimonio in bilico a Dakar in Atlantique di Mati Diop, la riunione di tre rami familiari a Sintra in Portogallo in Frankie di Ora Sachs, i fratelli Dardenne che raccontano di un tredicenne che si vota al terrorismo (Le jeune Ahmed), e ancora Tarantino che in Once upon a time in Hollywood racconta di aspiranti attori sullo sfondo del sangue infernale di Charles Manson, il dramma familiare del sorprendente Bong Joon Ho (Parasite), la guerriglia alternativa di Les Misérables di Ladj Ly, la vita-contro dimenticata di Franz Jagerstätter in A Hidden Life di Terrence Malick, uno strano e inquietante villaggio brasiliano in Bacurau di Kleber Mendonça Filho & Juliano Dornelles, un ritratto e la libertà di una donna nel Settecento del Portrait d’une jeune fille en feu di Céline Sciamma, un poliziotto e un dialetto sconosciuto ne La Gomera di Corneliu Porumboiu, e il circolo vizioso di una psicoterapeuta in Sybil di Justine Triet.
E’ sempre curioso e stimolante scorrere l’elenco dei film di un concorso, crea un sistema di attese che solo la visione potrà confermare o smentire. Alla Giuria il compito di stilare il verdetto che necessariamente un Festival porta con sé. Con il presidente Inarritu, l’attrice Elle Fanning, i registi Yorgos Lanthimos, Alice Rohrwacher, Maimouna N’Diaye, Kelly Reichardt e Pawel Pawlikowski, e un maestro del fumetto e dell’illustrazione come Enki Bilal.