23/03/2011
Uno sguardo su tutto il mondo del fumetto e su tutto il mondo, visto dai fumetti
150 anni di unità di stereotipi
Cliché meschini di italiani meschini nei comics della Golden Age
“Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.”
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.”
La parola "stereotipo" proviene dal linguaggio tipografico. Firmin Didot conio’ nel XVIII secolo questo termine, per indicare la piastra di metallo - lo “stereo-tipo” appunto - su cui veniva impressa un'immagine o altro elemento originale, in modo da permetterne la duplicazione su carta stampata.
Cliché, che è un sinonimo di “stereotipo”, ha la stessa associazione anche in campo tipografico. Cliché era infatti un termine onomatopeico derivato dal suono prodotto durante il processo di stereotipizzazione, quando la matrice colpiva il metallo fuso.
Nel tempo entrambi i termini sono divenuti una metafora per un qualsiasi insieme di idee ripetute identicamente, in massa, con modifiche praticamente nulle.
Lo stereotipo e il cliché sono infatti, nell'uso moderno, la visione semplificata e largamente condivisa su un luogo, un oggetto, un avvenimento o un gruppo riconoscibile di persone accomunate da certe caratteristiche o qualità esagerate, al punto da diventare detestabili o ridicole.
Will Eisner, uno dei più grandi maestri dell’arte fumettistica, uno dei primi in assoluto ad aver iniziato a studiarne gli stilemi e fissarne i canoni, nel suo manuale “Graphic Storytelling – narrare per immagini” (1996), si sofferma sull’importanza dello stereotipo nei fumetti.
Pur premettendo che gli stereotipi godono di cattiva fama - perché presuppongono una banalizzazione del soggetto e finiscono per diventare uno strumento di propaganda spesso a sfondo razzista, e che l’aggettivo “stereotipato” si applica a ciò che è trito e comune – Eisner considera lo stereotipo un male necessario, un ingrediente ineludibile per molti fumetti.
Afferma infatti: “i disegni dei fumetti sono riproduzioni riconducibili di gesti ed atti umani. Ne rappresentano un riflesso, ed è compito dei ricordi e delle esperienze immagazzinati nella memoria del lettore utilizzarli per visualizzare rapidamente un’idea o un’azione.
Questo rende necessaria la semplificazione delle immagini in simboli riproducibili, cioè in stereotipi. (...) Nei film c’è un sacco di tempo a disposizione per sviluppare un personaggio che faccia un determinato mestiere.
Nei fumetti, invece, il tempo e lo spazio disponibili sono molto ridotti. L’immagine o la caricatura devono risolvere la faccenda all’istante”.
Oggi - grazie anche allo stesso Eisner – il fumetto è andato oltre alla sua forma seriale e canonizzata in un limitato numero di pagine, affrancandosi da un narrativa semplificata e viaggiando ormai in parallelo al cinema e alla letteratura.
Ma la sua analisi dello stereotipo nei fumetti rimane assolutamente fondamentale e valida per studiare le scelte illustrative della narrativa disegnata.
Durante la II Guerra Mondiale i fumetti americani fecero ampissimo uso degli stereotipi. Sia come tratto insito nel linguaggio generale del fumetto di quegli anni, sia propriamente a scopo propagandistico.
Tramite storie avventurose, affascinanti, mirabolanti (per quanto ingenue), si voleva far passare il messaggio costante della potenza e del coraggio degli americani, contro la crudeltà e il male delle truppe nemiche.
Lo stereotipo negativo dei paesi dell'Asse non era denigratorio in senso generale, ma veniva modellato su quelle che venivano considerate, nel senso comune, le caratteristiche più negative di ciascuna nazione.
I suoi peggiori difetti e le sue più grandi debolezze, causa della sua puntuale sconfitta alla fine di ogni storia.
I tedeschi erano dipinti come spietati, crudeli, bene organizzati, demoniaci (spesso Hitler si alleava con Satana, o si scopriva essere lui stesso Satana). Per sconfiggerli serviva un volume di fuoco spaventoso, sacrificio e ardore da parte degli eroi, che spesso fino all'ultimo parevano avere la peggio.
Le morti dei nazisti avvenivano pero’ per la maggior parte della volte fuori campo, o in un gruppo indistinto.
Gli eroi a loro volta si sfogavano contro questa ferocia uccidendoli a frotte, uno per uno, con qualunque tipo di arma e maniera e con particolari dettagliati dell’uccisione (Pearl Harbour scottava troppo, per gli Americani…).
E gli italiani? Gli italiani erano raffigurati… come dire… stupidi e ridicoli.
Fino alla fine degli anni ’30, a essere precisi, l’esercito italiano e i suoi vertici furomo mostrati determinati e spietati come e più dei tedeschi. Poi, dall’entrata in Guerra e i reali scontri sul campo, gli americani decidono di mostrarci ridicoli e stupidi.
Ma anche codardi, traditori, paurosi, voltagabbana. Sempre pronti a tradire la parola data, a barare, se vediamo che ne possiamo trarre un minimo di vantaggio o se non siamo in grado di affrontare e vincere in un confronto leale.
Ma soprattutto ci dipingono come inadeguati a stare sulla scena internazionale, un popolo e un esercito bue, da burletta, facile da ingannare e da sconfiggere. Infatti pochi soldati italiani vengono uccisi nei fumetti di guerra: basta prenderli in giro, raggirarli e finiranno in trappola da soli, oppure si uccideranno tra di loro, come dei fessi.
E come rappresentare graficamente e dialetticamente questa idiozia, questa inadeguatezza degli italiani? Qual e’ lo stereotipo che fa subito capire che l’italiano non vale nulla - si batte con poco, anzi niente - che e’ una figurina beota e folkloristica di cui non avere timore o rispetto, ma da giostrarsi come si vuole, pure divertendosi?
Tra le altre tante immagini, svetta una pagina di Blue Ribbon Comics n.12, del maggio 1941, edito dalla MLJ. La storia ha come protagonista Loop Logan, asso dell’aviazione alleata, assistito dal suo fedele e colonialistico assistente indiano Clatra.
Dopo un atterraggio di fortuna nel deserto della Libia, i due si accorgono che le truppe italiane si stanno dirigendo per rifornirsi di acqua, verso di loro, verso l’oasi dove si sono rifugiati.
E questo perché?
Perché appena vedono che l’oasi è senza acqua, iniziano ad attaccarsi e a insultarsi tra di loro.
I soldati che provengono dal nord Italia, nella loro divisa verde (da cliché: i disegnatori americani non erano interessati alla precisione storica, ma ad affabulare), con i pantaloni verdi, il basco verde, le camicie verdi, iniziano a insultare quelli del Sud: “Mi fate schifo! Ecco cosa si ottiene ad avere degli ufficiali del sud Italia!”
I meridionali rispondono a tono: “A Pastafazoola!” (storpiatura di “Pasta e fagioli”: per gli americani, gli italiani imprecano nominando spesso vari piatti culinari). “tutti i guappi del nord italia puzzano!”. Nel frattempo le truppe si gettano nella disperazione e crollano a terra, mettendosi le mani nei capelli, sul volto, agitando le braccia.
Le due fazioni di italiani divisi continuano a litigare: “E’ colpa tua, ci hai portato tu qui!” “Colpa di che?? Tu Puzzi!! Dalla costa di Tripoli a questa oasi c’e’ la tua puzza! Tutti i guappi del nord Italia puzzano!!”
In questa confusione, autoaggressione, totale incapacita’ di rimanere coi nervi saldi, per Loop Logan e’ un gioco rubare tutte le armi agli italiani e catturarli tutti, lui e il suo assistente, da soli.
Insomma, per gli autori americani degli anni ’40, la figura dell’italiano che si odia tra Nord e Meridione, che si insulta, che si vuole dividere, che non si riconosce come un unico gruppo, sotto un'unica bandiera, i cui vertici al comando sono i primi a lanciare strali contro i connazionali del Sud, e’ una figura meschina, triste, debole e ridicola.
Per fortuna, stiamo parlando solo di semplici fumetti di 70 anni fa.