PREVENZIONE ITALIA
Cosa è stato fatto e cosa resta da fare per difendersi dalle catastrofi climatiche. Il livello di rischio idrogeologico e le opportunità di interventi locali e nazionali
Molti le chiamano “bombe d’acqua”. Per poi aggiungere che si tratta di “eventi imprevedibili”, quindi fenomeni da cui è impossibile proteggersi adeguatamente. Ma gli studiosi sono i primi a non essere d’accordo, perché sostengono invece che gli elementi per vincere la battaglia contro le alluvioni sarebbero già tutti a disposizione, solo che non vengono trasmessi e utilizzati come si dovrebbe. |
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Un problema di comunicazione e organizzazione, insomma. Come lascia intendere Paolo Prodi, fisico ed esperto internazionale di climatologia: “Esiste un sistema che i tecnici chiamano ‘nowcasting’ – spiega – che vuol dire ‘previsione istantanea’. Andrebbe combinato con le altre previsioni, riuscendo così ad ‘aggiustarle’, a precisarle; tanto da avvisarci se, quando e quanto un corso d’acqua strariperà. L’allarme può a quel punto essere inviato alle autorità, le quali prendono decisioni anche riguardo all’eventuale lancio dell’allerta. Ma tutto questo in Sardegna non è avvenuto, con le conseguenze che conosciamo”. Un’analisi confermata dalle parole che il capo della Protezione Civile Franco Gabrielli ha voluto pronunciare dopo la sua audizione alla Camera dei Deputati: “Il sistema di allertamento nazionale, così com’è può funzionare; quello che oggi manca nel sistema di comunicazione è che l’input della protezione civile non trova riscontro nella pianificazione generale e regionale. Per la messa in sicurezza del territorio italiano occorreranno poi anni ed anni – ha concluso amaramente il prefetto – sia per un problema di meccanismi di spesa, sia per i tempi tecnici di progettazione e realizzazione delle opere”. Eppure… |
Eppure sono le stesse autorità a chiarire che le forze messe in campo non appaiono insufficienti. Gianluca Garro del dipartimento della Protezione Civile: “Tutti i giorni emettiamo un Bollettino di vigilanza per ciascuna regione d’Italia, un Bollettino di criticità idrogeologica - anche questo per ogni regione - che riporta i tre gradi di pericolo possibile (ordinario, moderato od elevato) e un dettagliato avviso meteo”. |
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In effetti il quadro d’insieme della preparazione locale all’emergenza non sembra completamente sconfortante, con un 75 per cento dei comuni italiani dotati di un piano per fronteggiare gli eventi di crisi. E allora? “Allora ci sono dei fattori oggettivi che ci svantaggiano – afferma Claudio Margottini, del Dipartimento difesa del suolo dell’Istituto Superiore Protezione e Ricerca dell’Ambiente, Ispra – perché abbiamo una percentuale di territori franosi maggiore rispetto a quella di moltissimi altri paesi e una concentrazione urbanistica pittosto elevata la quale accresce i danni che un fenomeno è in grado di provocare. In tali condizioni date, la prevenzione è fondamentale: occorre disporre quegli interventi che permettano di non trasformare una precipitazione atmosferica, sia pure estrema, in un disastro ambientale e umano”. |
Non è operazione facile, considerando che oltre il 10 per cento del territorio nazionale è interessato dalla minaccia concreta e costante di frane e di alluvioni, con 6633 comuni d’Italia (sugli 8100 totali) che comprendono al loro interno aree ad elevato tasso di rischio. Rischio che aumenta in zone come Versilia o Calabria, in cui i rilievi bloccano le perturbazioni atlantiche che così possono determinare precipitazioni intense, insistite, concentrate. Oppure nel bacino padano e attorno ai grandi fiumi peninsulari (Tevere, Arno ecc.), ove il territorio è naturalmente predisposto a subire alluvioni torrentizie. La relazione del clima con le infrastrutture è un altro elemento critico: lungo i 7000 chilometri della rete autostradale italiana si collocano oltre 700 punti di intersezione con fenomeni franosi, e oltre 1800 sono gli snodi problematici che incrociano i binari sui 16000 chilometri della nostra rete ferroviaria. Anche qui l’uomo è stato ben poco previdente. “Negli anni ’50, ’60 e ’70 – afferma Margottini – si sono innalzate costruzioni in aree che erano dominio di fiumi e colline e ciò ha inevitabilmente messo sotto ipoteca nel medio periodo la tranquillità di molti nostri concittadini. Per riportare in sicurezza questi agglomerati urbani, le autorità di bacino hanno stimato la necessità di interventi per 40 miliardi di euro”. Già, ma secondo gli ultimi dati disponibili ne sono stati investiti appena due e mezzo.
Gli esperti della “Conferenza nazionale manutenzione e cura del territorio a rischio” hanno le idee chiare sulla direzione che questi fondi dovrebbero prendere, ben sapendo che le analisi scientifiche sui cambiamenti climatici indicano un peggioramento delle condizioni di pericolosità geologica e idraulica del paesaggio italiano. |
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Suggeriscono innanzitutto di procedere a una manutenzione "vera" e continua del territorio, intendendo con ciò una visione equilibrata che non preveda esclusivamente l'ingessamento dell'ambiente o il suo depauperamento selvaggio. In sostanza: fuggire gli estremi della cementificazione forsennata e dell’ambientalismo oltranzista. E, quindi, impostare una corretta politica gestionale della difesa del suolo, con un maggiore coordinamento tra gli interventi in tempo reale (di protezione civile) e quelli nel tempo differito (prevenzione e mitigazione). Come dire che muoversi all’ultimo momento serve a poco, occorre invece pianificare nel tempo la costruzione di argini: l’eterno dilemma italiano, tra impreparazione congenita e generosa improvvisazione. |
Con i livelli di rischio rilevati nelle nostre regioni, tale dilemma potrebbe essere fatale. Il Corpo Forestale dello Stato stima infatti che la popolazione italiana potenzialmente esposta a rischio idrogeologico sia pari a 5 milioni e 800mila persone. “Il pericolo idrogeologico contraddistingue soprattutto i piccoli comuni - si legge nei rapporti del Corpo - nei quali l’abbandono del territorio va ad amplificare i rischi derivanti dalla carenza di interventi di prevenzione”. Si tenga conto che tra la fine degli anni Novanta ed i primi anni Duemila, la popolazione italiana ha ripreso a crescere con un ritmo di oltre 403mila residenti in più all’anno dal 2001 al 2010, grazie all’incremento dei flussi migratori dall’estero che hanno rappresentato quasi il 90% di tale crescita complessiva. Questo allargamento della popolazione, principalmente concentrato nelle aree urbane, produce pressoché in automatico un acutizzarsi delle potenziali minacce climatiche locali. Nella “lista nera” delle regioni più esposte il primo gradino è sorprendentemente occupato dall’Emilia Romagna: in base ai chilometri quadrati e al numero dei suoi abitanti ha la maggiore criticità idrogeologica, classificata a 19,5. Seguono la Campania, con 19,1 e il Molise, a 18,8. Vengono quindi la Valle d’Aosta (17), il Friuli Venezia Giulia (15,4), Piemonte e Trentino-Alto Adige, entrambe con il coefficiente di pericolo pari al 12,2. Poi Toscana (11,1) e Umbria (10,6). All’ultimo posto la Sicilia, che vanta il record positivo di avere soltanto l’1 per cento del suo territorio sottoposto ad alti rischi. “Noi tecnici abbiamo sempre cercato di far capire – chiosa Margottini – che la minaccia ambientale in Italia non è connessa in via diretta con gli squilibri nord-sud, ma piuttosto con fattori legati alla conformazione territoriale che spesso variano indipendentemente dalla mera collocazione geografica”. Prendere sul serio questa constatazione potrebbe essere uno dei fattori propulsivi da sfruttare per il tanto predicato riscatto del meridione d’Italia.
Rodolfo Lorenzoni
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