C’è una ritualità impassibile e per certi versi anestetizzante in quelle che con spudorato candore ci ostiniamo a chiamare “morti bianche”, come se quel colore le spostasse in una landa astratta e asettica, perfino indolore, lontano in ogni caso dal sangue che invece le macchia. Guai a nominarlo il sangue e, se solo si potesse, perché denunciare questa maledetta interferenza che blocca i lavori, con la magistratura che viene a ficcare il naso dappertutto? E invece quelle morti accadono sui posti dove si lavora e, nel silenzio tremendo delle vittime, gridano di incidenti che non si verificano per una tragica fatalità o per uno scherzo del destino ma per incuria criminale e per la disinvoltura con cui si aggirano le leggi e si semplificano le procedure.
Si muore perché non sono state rispettate le regole che dovrebbero obbligatoriamente soprintendere alla sicurezza e perché il cinismo interessato dimentica che la vita viene prima di un capannone, di una casa, di una catena di montaggio, di una gru o di un telaio, di una vasca da ripulire o di un supermercato, il più bello da costruire, come quello che stavano tirando su a Firenze. Invece, un pilone è venuto giù e resta da capire se il progetto era fasullo, se era stato costruito male o se non l’avevano installato come si doveva. I periti diranno.
La vita viene prima, dicono adesso, dovrebbe venire prima perché in realtà viene largamente dopo le gare al ribasso, dopo la catena senza fine dei subappalti, dopo un occhio e anche due chiusi sull’irregolarità di tanti che vengono a lavorare per vivere e per mandare quei pochi soldi a una famiglia lontana. Clandestini, invisibili, spesso solo un numero, anche quando sono morti, neanche un nome, troppo difficile da scrivere o da pronunciare. Li sfiliamo via mentre corriamo sull’autostrada, li sfioriamo nascosti come sono dietro a barriere di lamiera o a pannelli dal design elegante che con immagini ci ricordano la bellezza di quello che alla fine sarà il risultato, quando non innalzano quel messaggio un poco colpevolizzante, “stiamo lavorando per voi”.
Capito?! Non vi lamentate, non rompete le scatole e tanto meno non chiedetevi cosa stia succedendo là dietro. Adesso è l’ora dei coccodrilli, del dolore che non riesce nemmeno ad essere unanime perché ormai la polemica politica tracima dappertutto e non ce la fa a tacere neanche davanti ai corpi di cinque disgraziati impegnati a tirare su una delle nostre belle cattedrali del consumo, colorate e piene di tutto. È una legge implacabile di questo mondo che il back lo rimuove e dimentica la dignità del lavoro e pure l’incipit lapidario di una Costituzione che dice di una Repubblica fondata proprio su quella roba là, il lavoro. No, meglio cancellarli la fatica e i lavoratori, solo l’effetto finale si deve vedere, le nostre adorate merci, un grattacielo svettante o uno stadio stupefacente.
Come quelli dei campionati mondiali di calcio in Qatar costati migliaia e migliaia di morti. Ma chi se frega, l’importante è che fossero pronti per la scadenza globale, fieri della loro architettura, comodi e confortevoli, pronti ad ospitare le partite, quelle sì imperdibili. A pensarci bene è come una guerra, con gli ignoti caduti sul fronte del lavoro, al massimo la retorica di un atto di compassione, un funerale, un giorno di lutto e via. E le promesse che adesso si cambia… Con i cinque morti di Firenze siamo arrivati a 145 lavoratori che hanno perso la vita in questo inizio del 2024. L’anno scorso erano stati 1486 e le statistiche si affrettano a precisare che nel numero vanno inclusi anche quelli deceduti in itinere, vale a dire mentre andavano al posto di lavoro. Sono tanti e la cifra diventa agghiacciante se si pensa che in 15 anni, dal 2008 al 2023, le morti bianche sono state più di 21 mila. E dunque cordoglio, strepiti, indici puntati contro la mala pratica dei subappalti e la piaga inaccettabile e miserrima del lavoro nero.
Ecco, questa storia terribile è fatta di colori opposti, il bianco con cui si cancella la vita di chi va a lavorare e il nero della morte e di contratti inesistenti e da fame. Quattro dei cinque finiti sotto il crollo di quel mostro di cemento armato venivano dalla Tunisia e dal Maghreb, non parliamone come vittime collaterali di un tempio del nostro benessere, ma come testimoni per sempre silenti della paradossale e crudele odissea dei migranti.