L’Italia galleggia. È questa la metafora che usa il 58º Rapporto del Censis sulla situazione sociale del paese. Come a dire che si ritrova in una medietà nella quale non ha lo slancio per saltare fuori di sé e però neanche il peso, la zavorra che potrebbe trascinarlo giù. E in questa oscillazione inerziale sono tanti, troppi “i conti che non tornano nel sistema-Italia: più lavoro e meno Pil, turismo su e industria giù, carenza di personale e ipoteche sul welfare” che generano insicurezza.
E poi l’analfabetismo di ritorno e crescente da un grado all’altro del percorso scolastico, l’odissea sanitaria, i timori dei giovani per la pensione (peraltro in presenza di un aumento del tasso di occupazione), “l’insostenibile leggerezza dei redditi” con il ceto medio che si sfibra e rispetto a venti anni fa vede diminuire del 7% le entrate.
L’appuntamento con il Rapporto non è solo una consuetudine è anche l’occasione per confrontarsi con una radiografia della penisola che ogni anno viene a sintetizzarne gli umori e lo stato delle cose. E il dato generale è appunto questo, un galleggiamento che dietro di sé non ha “né capitomboli rovinosi nelle fasi recessive, né scalate eroiche nei cicli positivi”.
Questa sorta di bonaccia si accompagna anche a una sorta di stanchezza complessiva che riguarda anche la fiducia storica verso l’Occidente, l’Europa e le istituzioni della democrazia liberale, come se questo orizzonte non fosse tanto venuto meno quanto piuttosto vissuto con una rassegnazione e non con l’energia vivificante in cui trovare un nuovo dinamismo. Il Rapporto, da questo punto di vista, suona sempre la stessa nota: parla di “un popolo polverizzato e con uno scarso senso della storia” (vorrà dire qualcosa se per il 19% degli italiani Mazzini è stato un politico della prima Repubblica e Giotto l’autore degli affreschi della Cappella Sistina…), “un paese che sente l’affanno nel rimettersi in moto” e che anche se ci prova “resta all’antico vizio di una scarsità di direzione, di un’assenza di traguardi e di coraggio per affermarli”, un Paese in preda alla paura che comporta il rischio di aprirsi, di rompere i recinti ed esplorare nuove possibilità “ma che allo stesso tempo non può permettersi di non correre se vuole crescere e non più galleggiare”.
Ecco il circolo vizioso, anche se “si torna a parlare di crescita”, gli Italiani che racconta il Censis non hanno sufficienti sussulti, come se quello che è accaduto in questi anni gli avesse resi cinici e ripiegati su se stessi: “la sequela di disincanto, frustrazione, senso di impotenza, risentimento, sete di giustizia, brama di riscatto, smania di vendetta ai danni di un presunto colpevole, così caratteristica dei nostri tempi, non è sfociata in violente esplosioni di rabbia. Ci flettiamo come legni storti e ci rialziamo dopo ogni inciampo, senza ammutinamenti.
Ma la spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata”. Eccola dunque “la sindrome italiana”, la medietà di cui parlavamo, questo restare sul pelo dell’acqua rispetto al quale il Rapporto rinnova l’appello ad assumersi la responsabilità di un cambiamento che non sia contingente ma rimetta in moto una dinamica di crescita e di sviluppo. C’è un fantasma che si aggira tra le pagine del Censis che dice anche di una percezione che comincia ad essere diffusa e cioè la paura che lentamente si stia scivolando fuori dal palcoscenico, insomma che sul Paese incomba la minaccia di una marginalità rispetto ad un mondo che sta cambiando vorticosamente, dalla geopolitica alla crisi climatica, all’irruzione potente di un nuovo protagonista come l’intelligenza artificiale.
È un fantasma che nasce dall’insieme delle vicende che l’Italia ha attraversato in questi anni, da una sequela di governi – tecnici, sovranisti, antipolitici, leaderistici – che ha consumato se stessa e la credibilità della politica e con essa anche quello che è sempre stato un cavallo di battaglia nella visione socio-politica del Censis, l’idea cioè di una “poliarchia”, di una corale e partecipata concertazione tra chi governa e i soggetti e le rappresentanze collettive. Pare di sentire una nota di rimpianto, forse anche di nostalgia.
E in questo viene da pensare che la lucidità delle analisi sconti lo stesso “vizio” che rimprovera agli Italiani. La difficoltà, cioè, di leggere fino in fondo il cambiamento nel quale siamo presi e lo strutturale spostamento delle coordinate su cui si sono costruite la storia del Paese e anche le ragioni di un Rapporto.