Baz Luhrmann è un regista-shaker australiano che tutto trasforma in una sfida. Prende senza timori reverenziali Romeo e Giulietta di Shakespeare e nel 1996 crea un rutilante frullatore musical con Leonardo Di Caprio e Claire Danes. Oppure, cinque anni dopo, si avventa su La Traviata di Giuseppe Verdi e la reinventa in un Moulin Rouge post-moderno, non sai se più barocco o più kitsch, in cui con Nicole Kidman e Ewan McGregor attraversa l’immaginario musicale da Marylin Monroe a Elton John e quello cinematografico da Georges Méliès a Max Ophüls.
Pura finzione che non si trattiene dall’eccesso, anzi ne fa la chiave per mettere in scena un’irresistibile spettacolo di immagini e musica, con i ritmi vorticosi di un montaggio che non finisce di rincorrere se stesso. Cinema, insomma, esplorato e esaltato sull’estremo lussureggiante e bulimico di un campo che, all’opposto, e con la stessa intensità può praticare l’ascetismo di Ozu o Bresson.
Dunque, quando Baz decide di occuparsi di Elvis Presley non puoi pensare di trovarti di fronte a un tradizionale biopic, un didascalico resumé con un’ordinata successione di capitoli, nascita, famiglia, carriera, successi, declino, fine. O meglio, sai già che, se quella traiettoria della vita del rivoluzionario protagonista del rock dovrà comunque esserci, sarà il modo di raccontarla che farà la differenza e la sostanza.
E Elvis non delude l’aspettativa. Luhrmann ci rovescia addosso la potenza dell’epifania di Elvis Presley, nato a Tupelo, Mississippi, l8 gennaio del 1935, sulla scena dell’America degli anni Cinquanta, il corpo alieno che cantando That’s All Right Mama accende le pulsioni sessuali represse e in attesa solo di un lighter per esplodere, gli occhi risucchiati dall’ancheggiare allusivo ed esplicito di Elvis the Pelvis.
Luhrmann allestisce un jukebox mozzafiato che si alimenta di un overdose di immagini, prese in un flusso inesauribile che a volte l’occhio non riesce quasi a percepire, per ricostruire la traiettoria impareggiabile di un ragazzo che diventa un fenomeno nella musica e nel costume, qualcosa di mai visto che solo quella esasperata intensità audiovisiva può pensare non di ri-produrre ma di avvicinare e rielaborare come se si stesse in un laboratorio.
Quando si affrontano personaggi così iconici, assunti nel mito universale e senza tempo di se stessi, si corre il rischio di improbabili ricerche di somiglianze, che alla fine non possono che deludere rispetto all’originale. Luhrmann lo sa, sceglie il suo corpo-esperimento, Austin Butler, e lo mette al centro del suo caleidoscopio vorticoso, un salto di qua e un salto di là, la madre e il padre, Elvis che ascolta la musica e il canto degli afroamericani, il paradosso inaccettabile per il perbenismo dominante del bianco che interpreta la musica e i ritmi dei neri e che nel corpo porta tutta la dionisiaca potenza della libido più sfrenata. Insomma, mette in scena un rapporto che destabilizza e allarma, perché l’energia di Elvis chiude il cerchio con quella del pubblico, ragazzi e soprattutto ragazze che urlano e si scatenano nello sgomento dei padri.
Dunque, un film su un mostro dello spettacolo e sul mistero di un’identificazione, ma inevitabilmente anche un film sullo spettacolo e sulla macchina invisibile e rapace che l’orchestra.
Non l’abbiamo ancora detto, ma è la chiave di tutto il film e a questo punto, è il caso di mettere in chiaro il doppio livello su cui Luhrmann conduce la sua operazione. Il film comincia infatti con uno strano personaggio ormai all’ultimo passo della vita che ripensa e si racconta. Un flashback in cui si presenta come un imbonitore, anche lui un fenomeno, non però sul palcoscenico, ma nell’arte della persuasione, un sofista, un simil-Barnum capace di imporre al pubblico la verità di una merce, di un prodotto che abbia le carte in regola per oltrepassare la soglia del successo.
Determinante, confessa, è stato l’incontro e la scoperta del portento, del “dono di Dio” come la madre Gladys chiama Elvis. È lui il mago del back, quello che trasforma il talento di quel giovanotto in una macchina di soldi, è lui che dice di sapere tutto tutto di lui perché lo ha creato, come un perverso e cinico Frankenstein con la sua Creatura. È il colonnello Tom Parker e ha il volto quasi irriconoscibile, un naso diabolico, lo sguardo maligno, un corpo obeso, di Tom Hanks. Una figura centrale nella vita di Elvis che qui appare come il burattinaio che tira le fila, che con disinvoltura preme sull’acceleratore di una carriera e della ricchezza sua e della famiglia Presley, la Cadillac di Elvis, Graceland.
Poi, ecco la seconda parte del film, quella in cui il ritmo cambia e i nodi vengono drammaticamente al pettine, in cui le due linee, la vita di Presley e l’affare che rappresenta entrano via via in cortocircuito. Parker cerca di anestetizzare l’anticonformismo debordante del suo “prodotto”, vorrebbe riportarlo alla misura educata di una musica che non pregiudichi le buone creanze della gioventù, con un repertorio costumato, ma Elvis preferisce l’amicizia con B.B. King con cui va a vedere un’esibizione di Little Richard, e manda in crisi gli sponsor di un programma natalizio. Parker pensa di addomesticarlo anche con il servizio militare e il simbolico spettacolo del taglio dei capelli, lui va in Germania e conosce Priscilla, figlia di un ufficiale Usaf, la sposa e nasce Lisa Marie. Ma l’anima di Elvis non è quella di un mercante, vive il suo tempo, gli anni Sessanta che lo feriscono con gli assassini di Martin Luther King e di Robert Kennedy…
Così, fatalmente, si avvera la profezia che gli aveva consegnato B. B. King, “se non controlli gli affari, gli affari controlleranno te”. Mentre il successo non basta più a suturare le crepe esistenziali, il lato oscuro di Parker lo ingabbia in contratti pluriennali in un hotel di Las Vegas - che al Colonnello garantiscono la cancellazione dei debiti di gioco - e fa di tutto per ostacolare la sua voglia di una tournée internazionale, che lo faccia finalmente viaggiare e conoscere il pubblico di tutto il mondo. Intanto, entra in crisi il matrimonio, Priscilla prende la figlia e lo lascia, le pasticche bianche diventano una dipendenza che richiederebbe una riabilitazione per la quale non ha più la forza.. Elvis vorrebbe uscire dal vicolo cieco, licenzia davanti al pubblico di Las Vegas il Colonnello, ma questi lo mette di fronte a una montagna di debiti e dunque ad un’impossibile libertà… C’è ancora spazio per la tenerezza di un ultimo incontro con Priscilla, in cui le confida il timore che nessuno si ricorderà di lui.
Muore il 16 agosto 1977. Vediamo Parker che si aggira solo e povero tra le slot-machine di Las Vegas e poi l’ultima apparizione, due settimane prima, di un corpo ingrassato e inzeppato di farmaci ma ancora capace di mandare in visibilio il pubblico con Unchained Melody. Nello spettacolo allestito da Luhrmann entra un frammento di… verità.
C’è spazio anche per una battuta finale, lapidaria: “Da piccolo, ero un sognatore. Leggevo i fumetti e diventavo l’eroe della storia. Guardavo un film, e diventavo l’eroe del film. Ogni sogno che ho fatto si è avverato un centinaio di volte”.