Vince Oppenheimer di Christopher Nolan e torna a mani vuote Io capitano. È il verdetto, per certi versi non sorprendente, visto dalla nostra penisoletta cinematografica dell’edizione numero 96 degli Oscar.
Il rito annuale dell’Academy era molto atteso per la ricchezza e la varietà dei film in concorso all’Oscar che, si sa, è un termometro non solo della temperatura del cinema ma anche di uno spirito che dice di umori, tendenze e del costume di una società. Nelle nominations c’era una qualità diffusa, un livello autoriale molto alto, capace di tenere insieme approfondimento, riflessione, invenzione e la popolarità di un racconto. Il meglio di un anno segnato dall’accoppiata che ha sbancato il box-office Oppenheimer/Barbie.
Ha vinto il Cinema e la libertà di un linguaggio, prima ancora di certe preoccupazioni politically correct che hanno segnato le ultime cerimonie e a cui la platea dei membri dell’Academy è in genere assai sensibile.
La vittoria del film diretto da Christopher Nolan dice proprio questo, di uno straordinario racconto e di un conto rimasto aperto tra l’America e una memoria inquietante. Sette le statuette (su tredici nominations) ricevute dal film, regia, miglior film, fotografia, montaggio, colonna sonora, miglior attore protagonista (Cillian Murphy) e non protagonista (Robert Downey Jr.). Premiano un’avvincente stratificazione narrativa e una sofisticata partitura temporale attraverso cui restituire la complessità di un uomo e di una responsabilità che riguarda il destino stesso dell’umanità. Al tempo stesso, è l’America che si mette davanti allo specchio riflettendosi nella figura controversa e per certi versi enigmatica dello scienziato che fu uno dei responsabili del progetto Manhattan che portò alla messa a punto della bomba atomica e quindi alle due terribili esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Insomma un involucro di cinema al cui interno ci stanno il rapporto tra etica e scienza, ricerca e potere, libertà e politica, individuo e società.
Oppenheimer ha battuto lo spettacolo intelligente di Barbie di Greta Gerwig, l’ambiguità tragica di Anatomia di una caduta di Justine Triet (che ha vinto l’Oscar per la sceneggiatura originale), il pamphlet di Martin Scorsese su un altro e misconosciuto orrore della storia americana (Killers of the Flower Moon), il biopic Maestro su Leonard Bernstein di Bradley Cooper (ancora una volta a bocca asciutta), il poetico triangolo di Past Lives di Celine Song, l‘incontro-apprendistato di vita tra un prof e un giovane allievo in Holdovers di Alexander Payne e Povere Creature di Yorgos Lanthimos, già premiato con il Leone d’oro a Venezia.
Anche il miglior film internazionale tocca un buco nero della storia. La zona di interesse del regista inglese Jonathan Glazer parte da un racconto di Martin Amis per fotografare la vita impassibile e la quotidianità di una famiglia con i suoi agi, se non fosse quella del responsabile del campo di concentramento di Auschwitz, in un gioco a rovescio in cui lo sfondo è quello di un muro al di là del quale non si vede nulla se non un camino fumante, mentre tutto viene avvolto dal sottofondo sonoro di un girone infernale in cui si mescolano urla, colpi, latrati (il film ha preso anche l’Oscar per il suono).
Glazer ricevendo la statuetta ha detto dell’attualità di una “disumanizzazione” che dai lager arriva alle stragi di Hamas e alle vittime di Gaza.
Niente da fare dunque per Io capitano di Matteo Garrone e la sua elegia avventurosa e per certi versi onirica su due migranti, che pure aveva coltivato speranze, resta solo la consolazione di avere partecipato in un novero di film di grande densità narrativa e cinematografica, da Perfect Days di Wim Wenders a La società della neve di Juan Antonio Bayona a La sala professori di Ilker Çatak.
Detto del miglior attore protagonista, per l’attrice esito quasi scontato per Emma Stone che a Bella Baxter, la creatura imprevedibile e paradossale di Povere creature, ha dato lo stupore e la bellezza trasgressiva di uno sguardo e di un corpo. Al film immaginifico e di provocante ironia di Lanthimos vanno anche gli Oscar per i costumi, il trucco e parrucco e la scenografia, a conferma della creatività magistrale di una messa in scena. Attrice non protagonista Da’Vine Joy Randolph, la cuoca disarmante nell’umanità dei sentimenti di Holdovers.
Infine, la satira sugli stereotipi che intrappolano in razzismo duro a morire merita ad American Fiction il premio per la sceneggiatura non originale, dal romanzo Erasure di Percival Everett.
Adesso, ci sarebbe da andare al cinema a rivedere - chi ha già visto - e a vedere chi ancora non l’ha fatto. La sala buia aspetta.