VITE E FATTI MEMORABILI (ALMENO PER ORA)

VITE E FATTI MEMORABILI (ALMENO PER ORA)

Il Rombo e il Silenzio di Gigi Riva

Di Guido Barlozzetti

 

Gigi Riva è morto all’ospedale di Cagliari. Aveva settantanove anni essendo nato a Leggiuno, un paese sul lago Maggiore in provincia di Varese, il 7 novembre del 1944.
I numeri di una carriera. Dal ’60 al ’62 al Levino Mombello, un anno al Legnano e poi dal ‘’63-64 al ‘76/77 al Cagliari dal ‘63, dove segna 208 reti. In Nazionale 42 partite con 35 reti, tuttora record imbattuto. Vince con la Nazionale nel 1968 il Campionato d’Europa, partecipa a due campionati del Mondo, disputa la finale in Messico nel 1970 in cui l’Italia viene battuta dal Brasile. Riva, ormai a quasi mezzo secolo dalla sua attività di calciatore, resta un mito della potenza calcistica, straordinario interprete dell’eroe decisivo di uno sport, del gesto che risolve una partita, il gol, l’attaccante infallibile e immarcabile. E poi la Sardegna, il rapporto profondo con una terra che, una volta approdato al Cagliari, decise di non lasciare più, resistendo alle lusinghe miliardarie delle squadre metropolitane e divenendo simbolo dell’orgoglio e del riscatto di una regione.

La morte lo consegna definitivamente alla storia non solo del nostro calcio e del Paese, e lo assume stabilmente nell’immaginario che custodisce le imprese e le prodezze dei protagonisti, più forti delle ferite che la vita gli ha inferto e di quelle sofferte sul campo. Ci lascia le immagini di caterve di gol - tre volte capocannoniere nel campionato e al vertice dei marcatori della Nazionale - le immagini di una strepitosa forza capace di superare gli avversari e, partendo dalla sinistra del prato verde, puntare verso l’area, superare ogni difesa e trafiggere fatalmente il portiere con tiri imparabili oppure superarlo con colpi di testa e intuizioni acrobatiche, in un’esplosione di vigoria, tecnica e abilità.

Riva era - ma quando si parla dei miti, quelli veri - sarebbe il caso di usare il presente perché finiscono per vivere fuori dal tempo, in una regione dove non ci sono più stagioni e si celebra la sempiterna attualità di chi ha donato a tutti qualcosa di esemplare, Riva è la gloria del calcio e in questo, fuoriesce dal perimetro pur entusiasmante delle squadre in cui ha giocato che poi sono state una, il Cagliari per quattordici campionati. Lo condusse allo scudetto nel 1970, un portento irripetibile per una provinciale, che gli valse la duratura riconoscenza di un popolo chiuso nella sua fortezza isolana, fiero di sé contro chi lo ha dimenticato e per questo capace di uscire da una secolare riservatezza per celebrare questo messia venuto su un campo di calcio a ripagarlo di tante sconfitte.

Non lasciò più l’isola Gigirriva, autore e interprete di un risarcimento che dietro all’esteriorità spettacolare dei gol celava un’intima sintonia con quella terra, fatta di timidezza ritrosa, di una vena di malinconia e del rifiuto della banalità conformistica, vicino in questo a una personalità del tutto diversa, quella paradossale e dissacrante dell’allenatore dello scudetto, Manlio Scopigno, detto il filosofo in un mondo fondato più che sui pensieri sulle pedate, ancorché con la meravigliosa purezza estetica e balistica di quelle di Riva.

Era lì, in quel contatto intimo con la sensibilità di una terra racchiusa in se stessa, contro la barriera ostile del mare, che il fragore dello stadio diventava il silenzio di un’anima segnata da cicatrici dolorose, di genitori scomparsi anzitempo, di collegi e solitudini. Sui quali non è il caso di insistere quasi a volerne fare la chiave esplicativa di una personalità. I silenzi sono fatti per essere rispettati. E comunque viene da pensare che fosse proprio quel risvolto umano a tradursi nella compostezza un poco imbarazzata e sempre con una punta d’ironia nell’immagine pubblica.

Un velo che lasciava intuire la densità profonda di un sentimento e forse anche di un dissidio mai risolto con l’esercizio quotidiano dell’esistenza. Gianni Brera narratore dell’epica del calcio quando il calcio poteva essere epico, nella sua invenzione linguistica lo chiamò Rombo di Tuono, una divinità discesa in terra, un micidiale top gun del pallone, squassante e inarrestabile. Come quando contro l’Inter a San Siro resiste alla marcatura arcigna di Burgnich e fulmina Vieri, o in rovesciata scaraventa il pallone in rete a Vicenza nell’anno tricolore o ancora all’Azteca di Città del Messico nella botta dal limite dell’area che batte Maier e porta l’Italia al momentaneo pareggio nella partita epocale del 4 a 3 alla Germania.

Poi, fui la finale che sappiamo. Riva aveva nel piede sinistro oltre che in una complessione atletica debordante il dono che semplifica e risolve uno sport. Ha continuato a vivere nella terra d’elezione, geloso di sé, circondato dall’affetto che si riserva a un nume tutelare e che forse non bastava a colmare un malessere negli anfratti dello spirito, ha accompagnato la Nazionale con la sua esperienza… Così, per tutti gli anni in cui il calcio liberatorio e vincente a un pallone era diventato il tiro insistito e vizioso di una sigaretta.

 

 

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