Può succedere, nel tempo della televisione, che i narratori siano importanti tanto quanto quelli che da loro vengono raccontati e Gianni Minà, morto ieri 84 anni, è stato sicuramente un protagonista del giornalismo, capace di evocare al solo nome uno stile in quel particolare esercizio che è l’intervista (e il documentario) e di assurgere a modello di se stesso.
Ci lascia un’epica confidenziale, capace di entrare nell’intimità di chi si offre al gioco delle domande e delle risposte e, insieme, di coinvolgere lo spettatore nel segreto di un confessionale. Minà ha costruito memorabili siparietti di umanità in cui cadeva ogni barriera grazie a un’empatia irresistibile, fatta di complicità, di un’ironia mai sopra le righe e di rispetto della persona, prima dei ruoli e dei titoli.
Ha bussato a porte inaccessibili e gli hanno aperto ed è diventato il confidente per conto del pubblico di protagonisti al livello più alto dello sport, dello spettacolo e della politica. Ha costruito rapporti durati negli anni, fondati solo su questa capacità di entrare in sintonia, come un musicista con il suo strumento, se uno strumento può essere qualcuno che accetta di sedersi davanti a una telecamera e aprire il cuore davanti a milioni di spettatori, soprattutto quando a farsi intervistare è chi è prigioniero della fama di se stesso, restio a consegnarsi al circuito banalizzante e chiassoso dei media.
Da laico prete-confessore o da analista col microfono in mano, Gianni Minà è penetrato nel bozzolo dell’interiorità di Cassius Clay e Fidel Castro, Maradona, Robert De Niro e Garcia Marquez, Pietro Mennea e Enzo Ferrari, solo per dire di figure che hanno catturato l’attenzione globale e che in lui sentivano di trovare un cantore affidabile e partecipe. Figure che a loro volta testimoniano di una sensibilità che portava Minà ad avvicinarsi a campioni impegnati in battaglie che andavano ben oltre lo sport, portati da un’umanità che sfidava il conformismo fino a bruciare la vita, a potenti disponibili a far cadere il velo dietro cui si proteggono e nascondono ogni sentimento, a divi dello spettacolo felici di mostrarsi nell’autenticità di un’emozione, di un ricordo, di uno stato d’animo. Così, Platini gli raccontava della sua nausea per il sistema del calcio, Trapattoni dell’oratorio che non aveva mai dimenticato, Muhammad Alì lo faceva sedere accanto a lui alla fine dell’incontro-mito con George Foreman a Kinshasa, Mennea era pronto a rifare un’intervista dopo aver parlato per due ore a un registratore che non era partito, Maradona gli dava l’esclusiva dei suoi fantasmi distruttivi, degli abissi e delle risalite di una vita, e Fidel Castro, “un rivoluzionario che non ha perso la rivoluzione”, gli si concedeva per sedici ore e apriva il capitolo di Cuba e di Che Guevara. E così con campioni diversamente “dissenzienti” come Roberto Baggio, Alberto Tomba, Marco Pantani, Tommie Smith, con Federico Fellini, Eduardo, Gaber e De André.
Minà sapeva costruire il miglior teatro psicologico per far emergere la differenza di una personalità e soprattutto un’umanità non prona ai compromessi, anticonformista, attenta alle contraddizioni e alle ingiustizie del mondo. Celebrava le virtù e però chiedeva conto dei vizi, mai impancadosi a giudice e anzi prodigo di assoluzioni, con la testardaggine - era lui a sottolinearlo - di un’etica che rifiutava apparenze e confezioni.
E viene da chiedersi se in questo non ci fosse una specularità, una consonanza ribelle che lo portava a bypassare il capitalismo e a riconoscersi in quelli che gli diventavano eroi di una protesta e di un dissenso pagato di persona, e in un continente, l’America del Sud di contro all’America del Nord. “Una passione nella passione” che si allargava alla letteratura - dal totem Garcia Marquez a Osvaldo Soriano Eduardo Galeano che Minà contribuì a far conoscere in Italia - e da cui nacque una serie di documentari dedicati a una compagnia di eletti che allineava Rigoberta Menchù, il subcomandante Marcos e il Chiapas, e Che Guevara di cui ripercorse nel 2004 il lungo viaggio del 1952 in motocicletta (da cui anche la collaborazione al film di Walter Salles) dall’Argentina al Venezuela. E in questa predilezione vanno ricordati i quindici anni - dal 2000 al 2015 - in cui diresse la rivista di letteratura Latinoamerica e tutti i Sud del mondo.
In questo, va detto, Minà finiva per abbandonarsi a un’esaltazione mitizzante che, ripetuta nel tempo, gli aveva comportato il rischio di diventare un cantore autocompiaciuto e di esporsi alle imitazioni, come accade a chi viene assunto dal pubblico come personaggio con i tics e le manie che lo connotano. In ogni caso, va altresì detto, con un entusiasmo e una ricerca di verità lontana dalle paludate e corrette convenzioni dell’informazione giornalistica e televisiva di quegli anni.
Lo ha fatto a Sprint con Maurizio Barendson, con cui si ritrovò ne L’altra domenica di Renzo Arbore sulla Rai2 scoppiettante, irriverente e moderna di Massimo Fichera, a Tv7, Az/Un fatto come perché, Dribbling, Odeon/Tutto quanto fa spettacolo, Gulliver… poi, l’incontro con Giovanni Minoli a Mixer e quindi la conduzione di Blitz, 1981/84, domenica pomeriggio su Rai2, le telecamere mai ferme, ospiti pronti a mettersi in gioco, divertimento e informazione, quando il servizio pubblico faceva esperimenti a costo di incrociare una bestemmia live di Leopoldo Mastelloni.
Una dedica di Paolo Conte, “Un boxeur latino”, gli aveva dato il titolo di un’autobiografia dove aveva raccontato di Torino, dei genitori che erano venuti da Lipari, uno zio cosacco del Don, un nonno siciliano ferroviere, le cronache del Tour de France riprese dalla radio e rifatte per i ragazzini come lui, del liceo D’Azeglio, di un maestro di vita su una sedia a rotelle, e poi Tuttosport, Antonio Ghirelli e Maurizio Barendson… Tre anni fa, nel 2020, dopo anni in cui si era sentito messo ai margini forse anche perché si era ristretto lo spazio per un giornalismo da inviato temerario e ispirato a “cercare la verità” delle cose e delle persone.
È che intorno a lui, in questi anni della rete e del marketing dell’informazione, la televisione ha perso coraggio e il mestiere del giornalista si è andato rinchiudendo nelle redazioni, poco sensibile ormai a uno spirito liberal-socialista e fervidamente umano formatosi negli anni Cinquanta e Sessanta, con le tensioni e gli ideali di quei decenni. In Natural Born Killer di Oliver Stone qualcuno chiede “come si chiama quel giornalista italiano che intervistò Fidel Castro” - “Minà, si chiama Gianni Minà”.