Si intitola Stranieri ovunque/Foreigners Everywhere l’edizione numero 60 dell’esposizione internazionale d’arte a cura della Biennale di Venezia. Pensata da Adriano Pedrosa, riunisce 331 artisti e collettivi he vivono o sono vissuti in 80 paesi.
Un appuntamento importante in cui l’arte è chiamata a confrontarsi con le crisi che sta attraversando il mondo e il titolo diventa una bussola della trasversalità. Rinuncia a un centro e sceglie una condizione di trasversalità che sposta i i confini e le categorie con cui la storia, le abitudini, i pregiudizi e gli stereotipi hanno tirato su muri fatti di incomprensioni, sospetti, emarginazioni, sfruttamento.
Straniero è chi incontriamo e interroga la nostra identità, straniero è chi in un paese si ritrova in uno stato di inferiorità per questioni di etnia, religione, sesso, attorno a cui si sono consolidati una cultura e un potere.
La grande mostra allestita nel padiglione centrale ai Giardini della Biennale immerge in un mondo che è un occhio esterno rispetto alla nostra occidentalità che tante malefatte coloniali ha alle spalle e di cui dovrebbe redimersi. Così, da una stanza all’altra si manifestano immagini che vorrebbero essere di libertà e riportare a un prima o a un dopo rispetto a ciò che i poteri hanno imposto e continuano a imporre.
Un esercizio un poco straniante e che vorrebbe essere anche ricostitutivo, che spazia dall’America all’Africa, recupera tradizioni, lavorazioni, manualità, linguaggi e a partire da questi cerca nuove visioni, in cui il rimosso si mostri e si prefigurino armonie e identità dispiegate nella loro differenza.
Così lo straniero si sposta veramente ovunque, nella fluidità queer come nell’auspicio di un nuovo rapporto tra uomo e natura, oltre il dominio storico e culturale. L’americanizzazione di Portorico rivisitata da Pablo Delano, le immagini dei migranti nella parete mosaico con cui accoglie all’ingresso una pianiera femminista come Nil Yalter, la ricerca di Rubem Valentin sull’eredità africana del Brasile, le scene di strada e del carnevale di Haiti di Philomé Obin, i disegni di Joseca Mokahesi sulla quotidianità degli Yanomani in Amazzonia, i paesaggi ritrovati con sensibilità nativa da Kay WalkingStick, madre scozzese e un padre Cherockee…
Esci e si distende il labirinto dei padiglioni nazionali, ogni volta un’immersione, in qualche caso dopo file estenuanti in cui si distribuisce la folla di variamente addetti, aficionados, suiveurs di questo mondo dell’arte che Venezia richiama con le sue istituzioni culturali, mai come in questo periodo prodighe di proposte e sollecitazioni, Cà Pesaro e Palazzo Grimani, Punta della Dogana/Palazzo Grassi di Pinault e la Collezione Guggenheim con una mostra affascinante su Jean Cocteau.
Nei Giardini si susseguono i padiglioni nazionali. Si entra e si esce, ogni volta un modo possibile che prova a catturare con provocazioni che possono essere davvero avvolgenti, la festa cromatica che l’indigeno Jeffrey Gibson allestisce in quello americano, la trama di reti e trame con cui Julien Creuzet della Martinica immerge in un’esperienza che vuole spiazzare i sensi, il tessuto sonoro e di immagini con accompagnamento d’acqua dell’anglo-ghanese John Akomfrah, cinque canti in controluce al colonialismo, il futuro/passato del padiglione tedesco…
Resta sempre qualcosa da vedere, l’Esposizione sollecita un desiderio che potrebbe non appagarsi mai e, insieme, lo sottopone a una piena di sollecitazioni che potrebbero anche stordire in una sorta di ininterrotto turn-over di immagini e suoni.
Se l’assunto dell’evento di quest’anno è Straniero ovunque e va nella direzione di un’arte che apra, liberi e risarcisca quello che è stato rimosso, con un’insegna programmatica che a volte rischia di essere più forte dei contenuti, una domanda inevitabile riguarda anche la quantità dell’offerta e il senso di questa passeggiata estetica che si va a compiere nei Giardini. Mentre vi si ambisce a costruire una dimensione totalizzante dove ognuno può scegliere il proprio percorso, vi si compie anche l’acrobazia forse impossibile di portare nel loro recinto astratto la durezza e la ferocia della storia che sta fuori. Il padiglione d’Israele resta chiuso. In attesa della liberazione degli ostaggi, “per noi e per i palestinesi” ha detto l‘artista Ruth Patir.