Una scia di sangue sta bagnando questa estate romana. Una stagione festosa, che evoca serate all’aperto davanti a un’amatriciana o al grande schermo del cinema in una piazza di Trastevere, mentre frotte di turisti riempiono come mai le strade del centro storico, gettano un soldino, quando non se stessi, nella fontana di Trevi o mettono la firma sui mattoni del Colosseo per far sapere che ci sono stati e dicono pure che non sapevano fosse un monumento antico.
E all’improvviso, ma ormai con una ritualità ripetitiva che inquieta, gocce di sangue cadono da un sacco nero buttato dentro uno di quei carrelli che si usano per la spesa al supermarket. Quartiere di Primavalle, questa volta, hanno trovato il corpo di una ragazza di 17 anni, chiusa là dentro da qualcuno che si è accanito con il coltello. Poi, con le immagini delle telecamere che ormai sono dappertutto sono risaliti seguendo le macchie lasciate sulla strada fino ad una palazzina e poi ancora sulle scale fino ad una porta. Quella dietro la quale potrebbe essersi consumato l’assassinio e potrebbe abitare chi ha ucciso.
È un’altra storia che si va a aggiungere alle tante di questa estate romana che con l’amplificazione che arriva dei giornali, dalla televisione e dalla rete sta diventando un’estate italiana. Il Sole e il Sangue. Come quello appena versato del bambino ucciso da un suv impazzito come chi lo stava guidando.
Roma è una meravigliosa cartolina ed ecco che queste notizie vengono in un attimo a strapparla. Nelle distese sterminate di palazzi e palazzine delle periferie dove vivono ormai milioni di persone, si aprono squarci atroci che dicono di una violenza terribile che irrompe laddove non c’è più lo spazio per il dialogo, se non quello virtuale della rete, e per il gesto tremendo che pone fine ad una vita. E ancora, a Primavalle, il gesto di un uomo che uccide una donna.
Quale orrore deve essersi consumato in quelle stanze e quale calvario tragico deve essere stato quello del carrello con quel sacco nero coperto di stracci e coperte, spinto sulla strada dall’assassino senza paretico lari segni di ansia, dopo aver colpito al cuore una ragazza. Non sappiamo bene perché, ammesso che dei perché possano esserci in un baratro come quello di cui stiamo parlando, lui ha parlato di un debito, irrisorio, una ventina di euro, per una pasticca di droga, che avrebbe dovuto restituire a lei, dalla cerchia degli amici parlano di un migliaio di euro, ma tutto resta nebuloso, una pistola giocattolo che lui aveva in casa… ma da qui a uccidere…, il sospetto che non possa essere stato da solo e che sia stato invischiato in qualche traffico di droga, notizie che emergono sul suo passato, certo non rassicuranti anche se tutto deve essere verificato.
L’ha uccisa e ha pensato di liberarsene lasciandone il corpo esanime accanto ai cassonetti delle immondizie. Un rifiuto, il resto di una storia, semmai di questo si sia trattato, da abbandonare in una discarica che è anche quella dei sentimenti.
Quando ci si trova di fronte a delitti come questo, alla violenza che tronca una vita, forse l’unico comportamento che si dovrebbe avere è il silenzio. Fermarsi, pensare a quale estremo possa giungere l’umanità e proprio per questo non dare spazio alle parole e quindi alle spiegazioni, alle riflessioni, ai commenti che vanno a rimettere tutto in quella specie di cornice che finisce anche per giustificare e chiamiamo contesto, e a quella chiacchiera che nel salotti della tv si alimenta e trangugia dettagli, si lancia in ipotesi buttate là come slogan, con la sicumera di chi ha in tasca la chiave definitiva, ognuno la sua, lo psicologo, il sociologo, il medico legale, il criminologo, l’avvocato…
La gente per tranquillizzarsi ha due reazioni opposte, chi dice che è sempre successo e chi invece che una volta non era così. In un caso e nell’altro cerca una rassicurazione, fatta di fatalismo oppure di rifugio nella favola del Passato. Serve alla pace di anime che guardano stordite, stupite, e però anche con curiosa morbosità, anime che al fondo sanno che può accadere, che la violenza e il male come lo chiamiamo con la maiuscola, esistono perché fragili sono i tentativi di esorcizzarlo e relegarlo ad una questione che riguarda gli altri.
Il che non vuol dire che siamo tutti colpevoli e assassini, è ovvio, ma neanche che possiamo sottrarci uno sguardo che ci dice che la brutalità è insita nelle cose e che queste cose hanno a che fare con la nostra umanità. Tanto più quando quel carrello del supermarket accanto al cassonetto ci dice di una ragazza che faceva il liceo, una vita social tra Tik Tok e influencer, e di un presunto assassino che postava serate da sballo per migliaia di follower… tracce di vita, ma del tutto sproporzionate rispetto all’omicidio, a meno di non pensare a risvolti oscuri, ricatti, a traffici inconfessabili, o alla facilità sconcertante di una reazione chi ha affondato un coltello. Intorno, universi di vita spesso abbandonati con i social a fare da unico collante, di esistenze che si rinchiudono nei pochi metri quadrati di un appartamento per proteggersi dal mondo di fuori, di povertà che si allargano, ma anche di noie che affondano nel tran tran del benessere o di una quotidianità non più puntellata da valori se non l’immediatezza di un piacere o anche una vita spericolata al limite della criminalità, e tutte vengono a ricordarci che nell’equazione del nostro sistema qualcosa non funziona. Questione politica, certo, e della responsabilità che le attiene, ma anche del grande vuoto che si allarga e del groviglio tremendo che nessun Internet può sciogliere sul confine tra la vita e la morte, tra il desiderio e la distruzione.