La guerra è un frullatore orribile e così è accaduto che dal buco nero del conflitto in Ucraina sia saltato fuori un personaggio che già conoscevano ma di cui non si erano capiti fino in fondo intenzioni e responsabilità. Si chiama Yevghenij Prigozin ed è il capo della private military company Wagner, l’esercito di mercenari che affianca quello ufficiale della Russia nella guerra in Ucraina.
È lui che fra il 23 e il 24 giugno, dopo attacchi ripetuti ai vertici delle forze armate russe, in particolare al Capo di Stato Maggiore Gerasimov, e al Ministro della difesa Shugoj, accusati di non collaborare e anzi di sabotare la Wagner, ha deciso di puntare addirittura sulla capitale, su Mosca e dunque sul Kremlino, per rivendicare I diritti dei suoi soldati rispetto alla minaccia di essere abbandonati o addirittura sciolti.
Ha puntato prima su Rostov, centro logistico e di comando delle truppe impegnate in Ucraina, e l’ha occupata. Si è registrato qualche timido tentativo di fermarlo e sono stati abbattuti degli elicotteri con una quindicina di morti, ma di fatto non c’è stata nessuna opposizione e il gruppo Wagner è andato avanti, sostanzialmente indisturbato.
Putin interviene dopo alcune ore di silenzio. Nel discorso non nomina mai Prigozin, parla di terrorismo, di tradimento, di coltellata alle spalle come quella inferta dai bolscevichi nel 1917 all’esercito russo. Chiede unità.
Non si sa bene quanti fossero i militanti della Wagner al seguito di Prigozin, forse venti o venticinquemila, sono arrivati a qualche centinaio di kilometri dalla capitale nello stupore del mondo che non capiva bene che cosa stesse succedendo, quale sconvolgimento fosse in atto e quali conseguenze potessero esserci per l’assetto di una superpotenza mondiale, che tra l’altro, non dimentichiamolo, ha un imponente arsenale atomico.
Un colpo di stato? Un’esibizione per rimarcare la propria forza e presentarsi al grande capo facendola. pesare? Una resa dei conti tale da mettere addirittura in discussione il potere dello stesso Putin?
Fatto sta che all’improvviso questa avanzata si arresta, di certo non ha sollevato il popolo e neanche raccolto appoggi dall’esercito. E si chiude un accordo, grazie anche alla mediazione effettuata dal presidente della Bielorussia Lukashenko. In sostanza, chi vuole potrà essere integrato nei ranghi dell’esercito, e quindi non subirà conseguenze per la rivolta, oppure potrà andarsene in Bielorussia, dove dunque la Wagner potrà continuerà ad operare.
Che sia tutto chiaro è difficile a dirsi. Questa vicenda resta ancora troppo oscura per poter emettere qualche giudizio e capire veramente che cosa sia successo. È stato un colpo di testa di un capo che ha sopravvalutato le proprie forze? Questa avanzata nel cuore della Russia è stato un gesto isolato oppure si può pensare che intorno ci siano comunque appoggi e sostegni nella società e nell’esercito? Di certo, non si è andati a uno scontro, anche se all’inizio sembrava una palla impazzita e fuori controllo questa Wagner che avanzava nel territorio russo.
Ci mancano molti passaggi, abbiamo ascoltato le parole ufficiali di Putin che certo non ha represso la rivolta o non è stato in condizione di reprimerla, forse capendo che lo scontro avete aperto uno scenario delle conseguenze del tutto imprevedibili e che quindi ogni sforzo dovesse essere fatto per fermare Prigozin e mantenere l’unità di un Paese in guerra.
Anche qui le interpretazioni sono varie. C’è chi arriva a dire che si sia trattato di una messinscena strumentalizzata la quale Putin avrebbe consolidato il proprio potere, un po’ come accadde in quello strano colpo di Stato in Turchia quando nel 2016 una parte dell’esercito scese in campo contro Erdogan.
Per la maggior parte degli osservatori questa ribellione è stata comunque un segnale, il sintomo di un problema che è più profondo di un gruppo militare insofferente per i vertici ufficiali e istituzionali, dunque una crepa che si è aperta nel potere che si pensava inossidabile e munito di Putin.
Ci saremmo aspettati una mano spietata, la violenza di una reazione esemplare che dunque avrebbe messo a tacere qualunque progetto volto a mettere in discussione il potere presidenziale. Ha trionfato la realpoliik? Putin ha misurato l’incertezza che poteva essere drammatica di quello che stava accadendo e allo scontro ha preferito una mediazione? Adesso veniamo a sapere che il 29 giugno, dunque pochi giorni dopo l’avanzata e l’accordo che l’ha fermata, Prigozin ha incontrato a Mosca lo Zar. Il portavoce russo Peskov ha spiegato che ognuno ha espresso le sue valutazioni su quanto avvenuto, che il presidente ha confermato la disponibilità ad accogliere I militi della Wagner nell’esercito e a loro volta i vertici del gruppo hanno confermato fedeltà e di essere pronti a combattere per la patria.
Dunque una situazione di stallo e di compromesso. D’altronde, quanto è accaduto si spiega anche con la natura ambigua della Wagner, un esercito privato che non è calato dal cielo ma è stato messo in piedi con l’ausilio dei servizi segreti russi con l’obiettivo di utilizzarlo in scenari dove non sarebbe stato possibile operare ufficialmente e alla luce del sole. Quindi, un soggetto ibrido e inevitabilmente a rischio. Impossibile smantellarlo o ricondurlo tutto all’interno dei ranghi ufficiali, per cui in queste condizioni le ipotesi possono essere le più varie, che la Wagner si concentri in Bielorussia e magari porti attacchi diversivi all’Ucraina e/o che si ridislochi in aree dove ha avuto già modo di essere attiva, come in Africa, dal Sudan alla Libia alla Repubblica Centrafricana.
Questa ambiguità deve essere la stessa che caratterizza i rapporti tra Putin e Prigozin. Sappiamo di un uomo di 62 anni, figlio di un’infermiera e di un ingegnere minerario ebreo che morì quando lui aveva 9 anni. Per un certo periodo si è dedicato allo sci, a cui ha rinunciato per un infortunio. Nel tempo ha accumulato condanne per furto e rapine. Condannato nel 1981 a 12 anni di carcere, nel 1990 è stato rilasciato per buona condotta. Pronto a cavalcare ogni situazione, determinato, brutale nelle sue affermazioni e dunque anche nei modi in cui si comporta, forte evidentemente di un potere e dunque di meriti acquisiti sul campo. Basta tornare agli anni decisivi in cui è iniziato il suo cammino, capace di un’ascesa che ha trovato proprio nel presidente un decisivo punto d’appoggio, da quando gestiva un’azienda di catering per scuole e esercito con contratti miliardari a San Pietroburgo e poi un ristorante in cui Putin ha accolto più volte ospiti illustri, ciò che è valso a Prigozin il soprannome “Lo chef di Putin”.
Si è interessato anche al gioco d’azzardo e ha fondato più di un casinò a San Pietroburgo.
A lui ha fatto capo anche un’impresa - la Internet Research Agency - impegnata nell’hackeraggio a cui si attribuiscono interventi tra il 2016 e il 2018 nella campagna elettorale per la presidenza americana, In particolare con l’obiettivo di delegittimare Hillary Clinton.
Nel settembre del 2022 ha dichiarato di avere fondato nel 2014 il gruppo Wagner per sostenere le forze russe nella guerra nel Donbass. In questo ruolo un rapporto sicuramente stretto lo lega a Dmitry Utkin, nella nebulosa che intreccia affari e attività (para)militari.
Insomma, un personaggio che ha saputo muoversi all’ombra del potere, in una logica proficua di scambio e di interessi reciproci.
Insomma, il quadro è molto più complesso di quello che appare, ci sono trasversalità, relazioni e un’opacità che è tradizionale negli affari della Russia, il che non permette di capire con chiarezza la partita che si sta giocando e quanto possa influire sulla tenuta che si pensava indiscutibile del presidente Putin e del suo regime. Un aspetto su cui necessariamente l’Occidente dovrà riflettere, aldilà dei proclami di facciata e degli auspici su una caduta, una scomparsa del presidente. La marcia di Prigozin è un segnale d’allarme. Comunque, e avrà conseguenze sull’andamento della guerra, su un delicato e fragile sistema di rapporti interni ed esterni alla Russia e dunque sulla pace che prima - speriamo - o poi si dovrà raggiungere.