Sia detto con tutta la retorica che è in agguato, la morte di Andrea Purgatori nel ricordo e nella riflessione che porta con sé e anche una domanda sul mestiere che faceva, quello del giornalista, del suo rapporto con le notizie e delle responsabilità che a nel verificarle e nell’approfondirle. E però va subito detto, proprio per non cadere nei luoghi comuni e per rispettare la vita di chi si sta parlando, che di una personalità multiforme stiamo parlando, capace di salire anche sul palcoscenico ed infilarsi tra i protagonisti delle storie che magari aveva scritto. Dunque, con una qualche trasversalità complici e certamente sostenuta dalla ricchezza dell’ironia.
Purgatori, aveva la scorza dura del cronista, come amava chiamarsi. E adesso siamo qui per ricordarlo come si fa in questi casi, tanto più quando si tratta di uno dei testimoni, non molti in circolazione, dei nodi tra i più spinosi della vita politica e sociale del nostro paese. Una terra complicata e double face si potrebbe dire, piena di misteri, casi irrisolti, inchieste mai arrivate ad una conclusione che fosse definitiva. Il catalogo infinito di stragi, attentati, depistaggi, collusioni, complicità inconfessabili, su tutto l’arco che va dalla criminalità organizzata all’etero-direzione da parte dello Stato e dei suoi servizi segreti, perfino forse alla Chiesa che, quando serve, tutto possono sacrificare, anche la vita dei cittadini, alla necessità di un ordine superiore.
Ricordando una citazione da Brecht, e adattandola alla situazione, si potrebbe dire sfortunato quel paese in cui l’informazione ha bisogno di eroi. Sfortunato perché vuole dire che spesso e resistente è stato e per certi versi continua ad essere il muro dell’impenetrabilità, Il muro di gomma come si intitolava il film di Marco Risi sulla strage di Ustica di cui Purgatori fu tra gli sceneggiatori insieme con Stefano Rulli e Sandro Petraglia. E non a caso, perché il film assumeva a protagonista, punto di vista e narratore Rocco Ferrante, giornalista che con accanita ostinazione non si fermava davanti ai alle opacità, alle manovre, alle collusioni e ai silenzi che circondarono quella vicenda. Apparirà anche in un cameo e nessuno più di lui lo meritava perché fu grazie alla sua dedizione se quel caso non affondò nella dimenticanza debitamente pilotata ma continuò a suscitare attenzione grazie a un pungolo mai venuto meno e a cui sostanzialmente si deve il velo squarciato su quello che accadde sul cielo del Mediterraneo il 27 giugno del 1980.
Dunque, un uomo fedele al decalogo del giornalismo d’inchiesta esercitato sui tanti casi offerti dalla cronaca, Mino Pecorelli, Aldo Moro, Tangentopoli, Abu Omar fino a Vatican Girl. La scomparsa di Emanuela Orlandi, la docu-serie realizzata per Netflix su un mistero ancora una volta riportato all’attenzione e che non cessa di tornare a confondersi in una nebbia che non sembra lasciare speranze. Un giornalismo che nasceva dall’esperienza e dalla curiosità dell’inviato di guerra, in Libano, nel confitto tra Iran e Iraq, nella Guerra del Golfo, sul fronte dell’Intifada. Documentare di persona, senza cedere alle verità ufficiali.
Gli spettatori se lo ricordano quando in prima serata appariva su La7 a presentare e condurre Atlantide, il continente sommerso di una verità sfuggente, le stragi di mafia, l’assassinio di Pasolini, il delitto di Simonetta Cesaroni a via Poma, il Titanic, il caso Mattei, l’attentato a John Kennedy. Lo stile inconfondibile di chi la verità la va a cercare, senza mai forzare nelle espressioni, con misura inflessibile, la voce che inesorabilmente scavava, tutto che alla fine convergeva nella percezione di un’autorevolezza di cui ci si poteva fidare.
Il paradosso di queste occasioni è che si finisce sempre per cercare una definizione, di mettere in un cassetto, insomma di incasellare una vita che per certi versi resta esemplare di umanità. E quella di Andrea Purgatori aveva tante facce, lo sceneggiatore perché nel suo mestiere c’era anche la passione di scrivere le storie che spesso erano i casi della realtà che diventavano un racconto. Nel cinema, Segreto di Stato, Nel continente nero, Il giudice ragazzino sull’attentato al giudice Livatino, Vallanzasca/Gli angeli del male, Fortapàsc su Giancarlo Siani, L’industriale.. e nella fiction L’attentatuni, La Sindone, Attacco allo Stato, Caravaggio, Lo smemorato di Collegno, Il commissario Nardone, Lampedusa.. E gli piaceva anche infilarsi tra le immagini, da Boris ai film di Alessandro Aronadio o a Posti in piedi in Paradiso di Carlo Verdone. E giocare a non prendersi sul serio duettando con l’estemporaneità di Corrado Guzzanti ne Il caso Scafroglia e poi nel manipolo surreale di Fascisti su Marte.
E forse sta qui, in questo atteggiamento disincantato il lascito di Andrea Purgatori e del suo viaggio di ironico e determinato esploratore nel buio della vita.