Tredici minuti di applausi alla prima della Scala andata in scena con il Boris Godunov di Modest Musorkskij. Alla fine tutto è andato secondo copione, proteste comprese.
Grande successo di pubblico e critica, dopo le polemiche sulla scelta di un titolo russo e le manifestazioni nella piazza antistante il teatro: ucraini, Centri sociali, il coordinamento dei collettivi studenteschi, Cobas, Attivisti per il clima. Cinque giovani del movimento ambientalista hanno imbrattato con la vernice una parete del teatro. Tanti gli ospiti illustri, a cominciare dal Presidente Mattarella (per lui cinque minuti di applausi), dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
Ha diretto l’orchestra il maestro Riccardo Chailly, la regia del danese Kasper Holten e le scene della stage designer britannica Es Devlin, gli interpreti apprezzati dal pubblico, in particolare il basso Ildar Abdrazakov.
Una polemica è stata innescata dal sottosegretario Vittorio Sgarbi che ha criticato che la direzione artistica di un teatro così rappresentativo dell’Italia sia affidata a “uno straniero”, Dominique Meyer, come d’altra parte anche gli Uffizi a Firenze. Proprio Meyer aveva deciso un’apertura con il Godunov prima dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina e non ha cambiato programma, nonostante le proteste del console ucraino a Milano.
Le reazioni istituzionali gli hanno dato ragione. Mattarella: “La grande cultura russa è parte integrante della cultura europea. È un elemento che non si può cancellare. La responsabilità della guerra va attribuita al governo di quel Paese, non certo al popolo russo o alla sua cultura”. La premier Meloni ha sottoscritto la decisione: “Conoscete la mia posizione in tema di conflitto in Ucraina, ma penso che la cultura sia un’altra cosa e penso che non bisogna fare l’errore di mescolare dimensioni che sono diverse. Noi non ce l’abbiamo col popolo russo, con la storia russa, noi ce l’abbiamo con scelte di chi politicamente ha deciso di invadere una nazione sovrana. È una cosa diversa, secondo me è giusto mantenere le due dimensioni separate”. E così von der Leyen: “Non dovremmo lasciare che Putin distrugga questo fantastico Paese (la Russia) e perciò non vedo l’ora di vedere quest’opera”.
Abbassa i toni Meyer: “Non ci sono state tante polemiche a parte quelle del console ucraino. Presentiamo un capolavoro della storia dell'arte e non significa che sia un appoggio alla politica russa. Sono delle cose diverse”. E Roberto Bolle: “La potenza dell’opera che si mangia le polemiche”.
Insomma, l’inaugurazione della stagione scaligera ha finito per esorbitare l’aspetto artistico ed è diventata un palcoscenico del momento che stiamo attraversando. I manifestanti hanno richiamato l’attenzione sulle difficoltà sociali, economiche ambientali del Paese. E così i cartelli degli ucraini hanno ricordato la guerra in corso. I sindacati dei lavoratori della Scala avevano chiesto di poter leggere un messaggio sui tagli alla cultura, gli è stato concesso di consegnare una lettera ai rappresentanti delle istituzioni, in primis a Mattarella. Di contro, il foyer è diventato secondo tradizione una passerella della borghesia milanese, dei politici e delle griffes che hanno firmato gli abiti delle signore. Comanda il nero, dal velluto di Alessandra Mastronardi al jumsuit di Rocio Muñoz Morales, ma sia Meloni che von der Leyen hanno preferito il blu. In vetrina tanti, Fabrizio Gifuni, Stefano Accorsi, Massimo Bottura, Morgan, Gianni Letta, la senatrice Liliana Segre…
Ma veniamo all’opera che poi è stata la protagonista della serata.
Per la venticinquesima volta Boris Godunov è andata in scena alla Scala, la prima nel 1909 con la benedizione di Arturo Toscanini - che poi l’avrebbe diretta per quattro volte dopo il ritorno dall’America - la direzione di Edoardo Vitale e l’interpretazione di Feodor Šaljapin. Memorabile l’edizione diretta nel 1979 da Claudio Abbado davanti al Presidente Pertini, con Nicolai Ghiaurov , Nicola Ghiuselev, Valentini Terrani, Ruggero Raimondi, John Shirley-Quick e Fedora Barbieri.
Delle due versioni del “dramma musicale popolare” è stata scelta la prima, quella del 1869, la Ur Boris. Un affresco per certi verso shakespeariano di Musorgskij (che ha scritto anche il libretto, tratto dal dramma di Puskin e dalla Storia dello Stato russo di Nikolaj Karamzin) sulla brutalità e la solitudine del potere.
Il compositore si rifece alla musica popolare russa, rifiutando esplicitamente l’influenza dell’opera italiana e tedesca. Ambienta tra il 1598 e il 1605, racconta di Boris Godunov che diventa zar di tutte le Russie dopo aver ucciso l’erede al trono legittimo, lo zarevič Dmitrij. Il monaco Pimen rivela il delitto e il novizio Grigorij s’incarica di guidare una rivolta e si rifugia in Polonia. Nel frattempo, il Paese è colpito dalla carestia, il popolo è scontento e si allarga la protesta contro il regicida Boris. Mentre i ribelli premono sui confini, lo zar perseguitato dal fantasma dello zarevič precipita nella follia e muore, dopo una supplica al figlio di continuare la sua opera.
Gli interpreti: il basso Abdrazakov/il boiardo Boris Godunov, Lilly Jørstad il figlio Fëdor, Anna Denisova la figlia Ksenija, Norbert Ernst il principe Vasilij Śujskij, Ain Anger il monaco Pimen, Stanislav Trofimov il vagabondo Varlaan, Dmitrij Golovin il novizio Grigorij Otrepev, Maria Barakova l’ostessa della locanda.