Un’onda di emozione continua a far vibrare il Paese e a intrecciarsi con l’amplificatore dei media e i discorsi dei social in un circolo vizioso che colpisce per l’intensità del coinvolgimento. Un altro femminicidio - sono oltre cento in questo anno - è questa la parola che si usa, per l’uccisione di Giulia Cecchettin da parte di Filippo Turetta, entrambi 22 anni, stessa provincia, quella di Padova. I fatti li conosciamo, al di là di un processo che si terrà e di una sentenza che sola può sancire la colpevolezza di un assassino. L’uccisione efferata, la fuga di Turetta, l’arresto in Germania, poi l’estradizione, gli interrogatori, lui che dice “Non so cosa sia accaduto nella mia testa, non potevo vivere senza lei”, frasi che escono come schegge inverificabili, le pene diverse dei genitori di lei e di lui, quelli di Turetta che lo rivedono in carcere come invece non potranno quelli di Giulia. A Padova, nella basilica di Santa Giustina, il funerale che diventa un rito di partecipazione collettiva che si intreccia con il bisogno di esserci generato dall’onda mediatica.
Direi subito quanto possa essere rischioso, anche moralmente, applicare a questi casi metri di giudizio basati sul clamore che suscitano, come se applicassimo la quantità per misurarne il valore di evento, quando stiamo parlando di qualcuno che uccide È di una ragazza che viene uccisa, ma lo sappiamo, ce lo ricorda l’antropologia, le società devono ricucire le ferite e riconciliare con le lacerazioni anche le più crudeli. Così, non si può non constatare come questo delitto abbia scosso in profondità la sensibilità di tanti, oltre la superficie sfuggente, frettolosa, della notizia di cronaca nera. Perché dunque questa eco nella psicologia popolare? Cosa c’è in questo omicidio che ha perturbato, come si dice nella psicoanalisi, le coscienze?
In questi anni, lo sappiamo, si è venuto formando un vero e proprio genere televisivo dell’orrore con alcuni accadimenti archetipici che vanno da Cogne a Avetrana, capitali simboliche della cronaca più nera. Parliamo di delitti particolarmente feroci che si presentavano, almeno all’inizio, con un alone sfuggente di incertezza nell’attribuzione delle responsabilità, racchiusi in universi familiari per certi versi impenetrabili a custodire rivalità, invidie, verità inconfessabili al di fuori delle mura domestiche.
Non si trattava, in quei casi, di femminicidi e tuttavia quelle vicende alimentavano una curiosità morbosa attorno al buco nero in fondo al quale giaceva un cadavere. Tutti ricordiamo i collegamenti in diretta con il luogo del crimine, le telecamere appostate fuori dai cancelli, i testimoni inseguiti dai microfoni, l’accanimento di esperti e opinionisti sui dettagli, compresi quelli che il pudore avrebbe voluto restassero nell’ombra, i partiti presi secondo la logica agonistica dei talk show, le sentenze pronunciate senza tema di smentita prima di quelle dei tribunali. E pure il paradosso di chi sarebbe stato condannato che non esisteva al bisogno di esibirsi in televisione Devi dire la sua in un cinico double face che molte ombre allunga su quella che chiamiamo la natura umana.
vTutto questo per dire che il delitto fa parte del racconto televisivo del nostro Paese e non solo perché il true crime è un genere della letteratura e della fiction che risale fino alla pubblicazione shock di A sangue freddo di Truman Capote e adesso, mi pare significativo, comincia spopolare anche dalle vostre parti.
Qui, però, c’è altro e basta scorrere le pagine dei giornali o ascoltare i salotti tv per trovare alcuni dei motivi che hanno acceso smarrimenti e desolati stupori: la giovane età dell’assassino e della vittima, la particolare crudeltà dell’atto, la violenza estrema che lo segna, due giovani appartenenti alla cosiddetta normalità, sia la loro che quella delle loro famiglie, almeno fino a quando non si comincia a scavare, in particolare nei comportamenti di lui. Basta ascoltare quello che Giulia diceva di Filippo: “Sono arrivata al punto che non ce la faccio più a stare dietro a Pippo, non lo sopporto più, cioè vorrei che lui almeno per un periodo sparisse perché ho l’impulso comunque di scrivergli (…) solo che questa cosa non la posso scrivere perché darebbe di matto… Vorrei fortemente sparire dalla sua vita ma non so come farlo perché ho troppa paura che possa farsi male”. Segnali di una pulsione possessiva e, insieme, della sollecitudine da cui nonostante tutto lei è animata nei suoi confronti. E quanti appelli abbiamo sentito in questi giorni non sottovalutare i segnali che possono dire comportamenti che possono oltrepassare un limite irreversibile.
E viene da chiedersi se non sia proprio la normalità della facciata una sorta di bolla rassicurante, uno scudo protettivo dietro al quale ripararsi e se proprio per questo non si dia come lo sfondo su cui esplode ancor più terribile la ferocia che distrugge una vita. Forse, questo delitto ha impressionato così tanto e ha colpito al cuore dell’emozione perché, più di tanti altri, ha fatto sentire la fragilità di questo rifugio individuale e collettivo. Come se quella efferatezza tremenda non appartenesse soltanto al fuori, a una mostruosità da cui difendersi dietro alle porte alle finestre di una domestica quotidianità, ma fosse uno spirito mefitico che alligna invece dentro e ci sorprendiamo, vacillando, a sentirlo più vicino di quanto pensassimo.
Sarà anche per il tempo complicato che stiamo vivendo, in cui la paura è un veleno sottile che trova alimento ovunque, nelle pandemie e nelle guerre, nel costo della vita, nelle stagioni che cambiano e soprattutto nella nube che impedisce di vedere con chiarezza un futuro, sarà per questo passaggio ondivago e imprevedibile in cui siamo presi, ma è come se ci sentissimo più esposti e insicuri così che quell’alterità orribile, mentre la deprechiamo e ne siamo sconvolti, la percepiamo in una contiguità sinistra e straniante.
Non è confinata in una notte in cui due esistenze collassano e una traduce l’impossibilità di un possesso nella negazione della vita stessa di chi s’illude di amare, ma si espande come un contagio e mette alla prova le difese immunitarie che si presumevano solide e munite.
Fa parte di questo gioco anche la politica del delitto. Attenzione, non la rivendicazione forte della dignità del femminile, ma la disputa opportunistica e volgare a mettere il cappello su un orrore e a ricondurlo nell’alveo di schemini sommari, come quello sulla cosiddetta società patriarcale che certo non è defunta ma intanto ha vissuto disgregazioni e ricomposizioni su cui si farebbe bene a guardare, e comunque dove perde sempre la capacità di riflettere e di sentire la complessità anche contraddittoria, anche al limite dell’indicibile, tra il buio dell’istinto e la luce tremolante della ragione, che sta dentro al gesto di un maschio che uccide una donna.