Un anno fa iniziava l'"operazione speciale", così l'ha chiamata il presidente Putin, con cui la Russia ha invaso l'Ucraina con la motivazione di "smilitarizzare il Paese" e "proteggere il Donbass".
Doveva essere per gli attaccanti una faccenda da sbrigare rapidamente e invece ne è uscito un conflitto di cui non s'intravede una possibile conclusione perché - stabilito chi è l'invasore e chi l'invaso - nessuno sembra seriamente disponibile a un prodromo di trattativa. Un conflitto, lo dico con il cinismo asettico delle parole, "ibrido", fatto di sangue, morte, disperazione, terribilmente analogico e, al tempo stesso, virtuale, e cioè vissuto e consumato da noi nelle immagini che ci arrivano e però con un back che annuncia una mutazione del concetto stesso di guerra.
È trascorso un anno ed è un'occasione per riflettere su quello che è stato e ciò che potrebbe essere. Cosa hanno depositato in noi questi dodici mesi? Cosa ha significato questa prima guerra nella terra dell'Europa che, a parte il conflitto seguito al crollo della Jugoslavia che fu di Tito, non conosceva gli orrori bellici dalla fine della Seconda Guerra Mondiale?
Anzitutto, le immagini. Palazzi distrutti, il volto dei superstiti, il martirio dei civili, bambini, anziani, i cadaveri per le strade, le violenze, le esecuzioni, le colonne dei profughi.. Hanno riempito i Telegiornali, hanno smosso le nostre coscienze, un flusso ininterrotto che a un certo punto ha rischiato anche di routinizzarsi e di regredire nell'agenda dei media e nella nostra sensibilità. In ogni caso, questo sarebbe l'aspetto che ci dovrebbe coinvolgere in quanto tutti partecipi dell'umanità, salvo poi ricordarci che l'umanità non è poi così dritta e solidale se poi è la stessa che le guerre le scatena e le combatte.
E qui arriviamo alla carta geografica dell'Europa che poi fa parte della globalità del mondo. Abbiamo preso atto definitivamente che con la caduta dell'URSS e dei regimi comunisti la cortina di ferro non c'è più e che è stata sostituita da una fibrillazione minacciosa, una sorta di faglia su cui incidono variamente l'Unione Europea che va ad allargarsi allarga a Est, la Nato che non è la stessa cosa e porta con sé la tendenziale egemonia geopolitica degli Stati Uniti, la Russia che riemerge dalle difficoltà con rinnovate e consustanziali ambizioni imperiali. Insomma, locale e globale a conferma che lo scacchiere della guerra è infinitamente più largo e complicato di quello in cui si combatte. In mezzo una striscia di paesi presi tra sirene occidentali e le regole impassibili della geopolitica.
Tutto ciò, e facciamo un altro passo, ha aggiunto un altro strato di quella insicurezza che sembra ormai una compagna stabile di questo tempo che, non trovando per ora un'altra cifra che lo definisca, chiamiamo "di passaggio", come a dire che abbiamo lasciato una condizione che nonostante tutto - compreso anche il terremoto finanziario post Lehman Brothers, che forse ne era già un'avvisaglia - ci rassicurava e che non intravediamo la certezza di un qualche un approdo.
Venivamo già dal sisma psico-pandemico del Covid e all'improvviso i cannoni hanno tuonato e un confine è stato divelto dai cingoli dei carri armati. Con una qualche ipocrisia, perché nell'ansia per una guerra "vicina", alle porte di casa o quasi, ci siamo dimenticati delle tante che continuano a devastare il mondo, una miopia che ha a che fare con una pulsione a guardare nel giardino di casa e che tira in ballo anche il modo in cui il sistema della comunicazione ha raccontato e sta raccontando quello che accade, un aspetto tutt'altro che accessorio perché attenzione mediatica, sentimento collettivo - quello che una volta chiamavamo "opinione pubblica" - e poteri sono presi in un intreccio strutturale di cui sarà anche il caso di sottolineare la novità rilevante e ancora largamente da decifrare della cosiddetta "net War" nella quale rientra anche la propaganda dei contendenti, dall'ininterrotto serial-Zelensky alle immagini ciascuno pro domo sua, a Biden a Kiev alle dichiarazioni di Putin o del ministro Lavrov. Parliamo di quell'immensa battaglia virtuale, non solo parallela a quella che si combatte sul campo ma interconnessa con le operazioni tradizionalmente militari. La guerra, questa guerra, ha cambiato pelle, la vediamo in tv esattamente come ce la può ritrasmettere un drone che, però e nello stesso tempo, ha anche geolocalizzato un obiettivo e fornito le coordinate per distruggerlo. E così con i telefonini e con i missili che possono arrivare da non si sa dove e centrare un bersaglio dappertutto, con la precisione chirurgica che al di là della retorica spesso finisce con condomini e ospedali sventrati. Guerra, immagine, l'algoritmo e chi lo governa.
Sullo sfondo di questo sfuggente guazzabuglio vicino-lontano, l'occhio che guarda, il cuore che rischia di assuefarsi, c'è anche un fantasma tremendo che pensavamo addomesticato. Il fungo atomico e lo spettro della Fine.