Esterno notte, la serie che va in onda questa settimana su Rai1, racconta di un accadimdento che ha lasciato un segno profondo nella storia italiana del dopoguerra: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, Il presidente della democrazia cristiana, per mano delle Brigate Rosse.
È passato quasi mezzo secolo da quel 16 marzo delle 1900 78 nel quale Moro venne sequestrato dai terroristi, nel giorno in cui si recava nel Parlamento che avrebbe dovuto approvare il primo governo con un appoggio esterno del Partito Comunista Italiano, fino ad allora escluso dalle stanze del potere - erano gli anni della Guerra Fredda, del confronto frontale tra l’Occidente e la Nato, da una parte, e l’URSS e i paesi del Patto di Varsavia, dall’altra.
È una serie importante per tanti motivi. Anzitutto è diretta, sarebbe meglio dire pensata e coordinata da Marco Bellocchio. Un autore nel senso più profondo del termine che ha realizzato film capaci di innovare nei contenuti e nel linguaggio, a partire da I pugni in tasca, 1966, in cui brutalmente il regista di Bobbio metteva in scena le contraddizioni di una famiglia e il senso di ribellione del protagonista interpretato da Lou Castel. Vi affioravano tematiche, la famiglia, il rapporto con i genitori, la religione, la rivolta contro le convenzioni borghesi, in un quadro di riferimento che oscillava tra il marxismo e la psicoanalisi. Un solco su cui si è mossa poi tutta la filmografia di Bellocchio fino a questo esperimento, perché di questo si tratta, perfino “troppo” coraggioso pensando all’audience generalista.
Esterno notte è un prodotto di confine, tre cinema e televisione: Bellocchio ha voluto presentarlo nelle sale cinematografiche diviso in due parti e, adesso, arriva in tre serate, ciascuna di due episodi, sullo schermo televisivo.
Sappiamo ormai come da tempo i confini tra il cinema la serialità siano venuti meno con uno scambio ormai sempre più frequente di attori, registi, sceneggiatori e produttori. Esterno notte si pone proprio su questa strada e la indirizza verso una serialità d’autore che in prospettiva può diventare una linea maestra per la fiction della Rai e in generale del nostro paese.
Bellocchio in questo senso ha allestito una sorta di laboratorio e ha pensato una struttura originale della serie nella quale il primo e l’ultimo dei sei episodi raccontano il rapimento e l’uccisione di Moro, gli altri quattro si concentrano ciascuno sul modo in cui quattro personalità entrano in questa storia, parliamo del ministro degli interni Cossiga, del pontefice Paolo VI, della terrorista Adriana Faranda e della moglie di Moro Eleonora. Una struttura innovativa che ha conquistato anche premi internazionali, in particolare l’European Film Academy che gli ha attribuito l’Award for Innovative Storytelling a conferma appunto un’attenzione innovativa che ha caratterizzato il lavoro di Bellocchio.
Dunque una serialità d’autore che si offre agli spettatori di Rai1 come evento della fiction di questo autunno, per la tematica che affronta e per la qualità del prodotto, dalla regia alla scrittura al cast. Aldo Moro è interpretato da Fabrizio Gifuni che presenta una somiglianza di fondo ma evita degli eccessi di verosimiglianza chi sarebbero stati sgradevoli, Margherita Buy è la moglie Eleonora, Toni Servillo il Papa, Fausto Russo Alesi il ministro degli interni Francesco Cossiga, Daniela Marra la terrorista Adriana Faranda.
Non è una storia facile, Bellocchio rifiuta la linearità, frammenta il racconto moltiplica gli specchi che riflettono le varie facce che sono poi le reazioni emotive, psicologiche di chi ha vissuto i 55 giorni della vicenda per il ruolo politico che ricopriva, come nel caso di Cossiga, per il rapporto familiare, la moglie, per il coinvolgimento che veniva dall’amicizia e dalla fede, Paolo VI, e per la partecipazione come brigatista al rapimento e all’uccisione di Moro. Non è un film inchiesta, lavora su un tessuto che finisce per essere più analitico che realistico, fin quasi a uno spostamento onirico che attraversa ogni scena, poco a nulla concedendo alla linearità del racconto.
D’altronde, il pubblico conosce la storia e dunque Bellocchio lavora a trovare punti di vista che restituiscano quella sostanza emotiva e in particolare a dare conto nel mondo in cui Moro Venne trattato da gran parte del sistema politico, in nome di un principio astratto quello di non trattare con le Brigate Rosse. Si fece di tutto per vedere nelle lettere che Moro inviava dalla prigionia la testimonianza inattendibile di un uomo circuito dai brigatisti e prostrato dalla detenzione. “Quell’uomo - ha detto il regista - come Cristo doveva morire perché nulla potesse cambiare non solo nella politica ma soprattutto nella mente degli italiani. Facendo un’eccezione alla mia regola di non ritornare più su storie già raccontate. Con un’ampia giustificazione cioè che la notte che ho voluto raccontare nella serie era assente in Buongiorno notte”.
Era il 2003 quando Bellocchio aveva affrontato il caso Moro, con Maya Sansa e Roberto Herlitzka. Allora il punto di vista era stato “interno” e al femminile con il punto di vista di lei, scissa tra bibliotecaria e terrorista, le divagazioni oniriche in cui si immaginava Moro alla fine libero.
Qui, il punto di vista è esterno alla prigione e la notte è quella del paese, nella classe dirigente della Democrazia Cristiana che ha emesso la sentenza di condanna verso chi ha aperto la stanza del potere al Partito Comunista. dell’umanità - politici, ecclesiastici, terroristi, infiltrati, agenti americani, millantatori…- che si muove attorno al caso con le paure, i dubbi, le miserie, la speranza che si fa sempre più esigua fine rovesciarsi nella disperazione.