di Guido Barlozzetti
12 dicembre 1969, Milano, pomeriggio. Nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, al piano terra, c’è ancora parecchia gente, per lo più commercianti di bestiame e mediatori che vengono dalla provincia e lì si riuniscono per le contrattazioni. Sono le 16.37 quando una violentissima esplosione devasta l’ambiente. Alla fine si conteranno 17 morti e 88 feriti.
Uno shock brutale, un boato trafigge l’Italia che esce dal decennio dei Sessanta, iniziato e proseguito nel segno di un altro botto, stavolta euforico, il boom delle industrie, dei consumi, della corsa dalla campagna nelle città, e concluso con la curva dirompente, innovativa e contraddittoria del Sessantotto e poi con le avvisaglie di una crescente conflittualità sociale, con i cortei e le manifestazioni operaie dell’Autunno Caldo.
Non è un Paese felice e tranquillo. La nuova prosperità ha innalzato il livello delle attese, ma ha anche determinato esclusioni. e poi c’è sempre il convitato di pietra del più forte Partito Comunista dell’Occidente che allarma i poteri che la Guerra Fredda continua a contrapporre all’Urss e al sistema dei suoi satelliti dell’Est.
La bomba scoppia a Piazza Fontana, insieme ad altre tre che deflagrano a Roma, una alla Banca Nazionale del Lavoro di Via San Basilio, una davanti all’Altare della Patria e un’altra ancora all’ingresso del Museo del Risorgimento a Piazza Venezia.
Oggi, a cinquant’anni di distanza, siamo ancora in attesa di una sentenza che dica con certezza chi furono i mandanti e gli esecutori di quegli atti con cui si annunciava l’orrore del terrorismo degli anni Settanta. Gli anni della “strategia della tensione”, volta a creare nel Paese un clima di smarrimento e paura, volto a propiziare soluzioni forti sul piano del governo, e poi “gli anni di piombo” con attentati e assassinii da parte dei cosiddetti “opposti estremismi”, e la stagione delle Brigate Rosse culminata nel rapimento e nell’uccisione del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro.
A ripercorrere quei giorni si torna a respirare lo sgomento, intriso della polvere di un’esplosione e attraversato dal senso di impotenza, sia di fronte alle vittime e alla cinica crudeltà di chi ordì il piano, sia per l’esito fallimentare delle indagini e dei processi.
Fu sventolata subito la pista degli anarchici, il Circolo Romano 22 marzo di cui faceva parete Pietro Valpreda, arrestato sulla base del riconoscimento effettuato dal tassista Cornelio Rolandi che dichiarava di averlo accompagnato in Piazza Fontana nell’ora dell’attentato, e il Circolo Ponte della Ghisolfa a cui apparteneva Giuseppe Pinelli, fermato lo stesso giorno e volato giù dal quarto piano della questura dopo tre giorni di interrogatori, per un malore disse la magistratura, dopo che si era detto di un suicidio a fronte della colpevolezza... Un volo a cui è legata anche la sorte del Commissario Luigi Calabresi, accusato dall’area extraparlamentare, in particolare da Lotta Continua, di esserne il responsabile e ucciso il 17 maggio del 1972 nei pressi della sua abitazione.
E’ una storia piena di buchi e di oscurità, di vittime che nulla c’entravano, di colpevoli avvolti nell’ombra, per certi versi inestricabile, in cui il visibile ha un retro nascosto in cui si muovono i servizi segreti, apparati dello Stato che dello Stato si dimenticano per assecondare logiche strumentali volte a destabilizzare il Paese in collegamento con pezzi del sistema politico, su cui negli anni non si è mai riusciti a fare definitiva chiarezza, nonostante l’impegno di magistrati coraggiosi e controcorrente.
Così al processo di Catanzaro – il dibattimento venne inspiegabilmente spostato da Milano - vengono assolti per insufficienza di prove gli anarchici Valpreda e Merlino – peraltro condannati per associazione a delinquere - e condannati all’ergastolo Franco Freda, Giovanni Ventura e Guido Giannettini, ovverosia due esponenti del gruppo neofascista padovano di Ordine Nuovo e un trafficante dei servizi.
La Corte d’Appello assolse tutti dall’accusa principale, confermò le condanne degli anarchici e condannò i due neofascisti a 15 anni per attentati compiuti a Milano, ma non per Piazza Fontana.
La Cassazione assolse definitivamente Giannettini e ordinò un nuovo processo a Bari, che assolse tutti per insufficienza di prove, sentenza confermata dalla stessa Cassazione. Stesso esito per un’istruttoria di Catanzaro sui neofascisti Stefano delle Chiaie e Massimiliano Fachini, accusati di essere l’organizzatore e l’esecutore della strage.
Alla fine degli anni Ottanta, a seguito delle indagini del giudice Guido Salvini, si riaprì la vicenda processuale a Milano, a carico di alcuni esponenti di Ordine Nuovo. Furono condannati e poi, altro processo, definitivamente assolti. La Cassazione confermò, aggiungendo però che l’attentato era da addebitarsi all’ambiente di Ordine Nuovo capitanato da Freda e Ventura, peraltro non più processabili in quanto già assolti in via definitiva da un precedente processo. I familiari delle vittime furono condannati a pagare le spese processuali.
Basta questa sequenza per capire la palude in cui la storia di Piazza Fontana è affondata.
Come raccontarla allora, a distanza di mezzo secolo e dopo questo torbido e irrisolto viluppo criminale, politico e giudiziario?
Io ricordo/Piazza Fontana, che va in onda la sera del 12 dicembre su Rai1, sceglie la strada della docufiction. Cioè una narrazione basata sulla compresenza della finzione e della documentazione. Sceglie anche di cambiare il punto di vista, non un’inchiesta con andamento poliziesco/thriller, ma la dimensione memoriale dei familiari delle vittime, di coloro cioè che nonostante le sconfitte e i fallimenti, non hanno mai ceduto e hanno continuato a riproporre la domanda sulla responsabilità della strage.
In particolare elegge a narratore Francesca Dendena, interpretata da Giovanna Mezzogiorno, figlia di Pietro che morì in quel dodici dicembre.
La vediamo davanti a una parete bianca su cui via via appone le foto delle vittime e dei personaggi variamente coinvolti, Valpreda, Pinelli, Rolandi, Freda, Ventura, Giannettini, Delfo Zorzi, gli uomini dei servizi Gianadelio Maletti e il Capitano Labruna... Srotola un filo rosso dall’una all’altra.
Le sue parole si intrecciano con testimonianze, immagini dell’epoca e scene-fiction della famiglia Dendena e poi del gruppo dei familiari in lotta per la verità. Tra i testimoni giornalisti come Bruno Vespa, Giampiero Mughini, lo storico Aldo Giannuli, il prefetto Achille Serra, il giudice Salvini e Federico Sinicato, avvocato dei familiari.
Un’occasione per un ricordo doveroso, con la consapevolezza di quanto oscuro sia il baratro in cui la democrazia di un Paese può precipitare.
di Redazione
La strage di Piazza Fontana per molti è considerato il primo atto di quel periodo di scontro armato denominato “Anni di Piombo” o “Strategia della Tensione”. Uno scontro molto simile a una guerra civile che lascerà sul terreno molte vittime, da una parte e dall’altra.
Su Piazza Fontana la Rai ha realizzato molti speciali per ricordare questa tragedia. Una di queste sono le tre puntate di Mangiafuoco sono io andate in onda su Radio1 tra l’11 e il 13 dicembre dello scorso anno.
Dal Piccolo Teatro di Milano, Radio3 ha dedicato una puntata speciale di La notte di Radio3 (170 minuti) per il 40° anniversario, dove si sono raccontate le testimonianze di Giorgio Boatti, Anna Bravo, Guido Panvini, Benedetta Tobagi, Gerardo D’Ambrosio, Piero Scaramucci, Giancarlo Majorino, Marco Belpoliti, Giuseppe Genna, Silvia Ballestra, musiche e letture con Marino Sinibaldi.
Sempre per il quarantennale, il canale webradio Rai Radio6 ha realizzato uno speciale dal titolo La strage di Piazza Fontana – Cronache dal GR in cui la cronaca della strage viene raccontata attraverso i servizi dei giornali radio.
Anche Radio3 ha realizzato una sua programmazione. In particolare la trasmissione Un giorno nella storia, che racconta, ora per ora, la giornata del 12 dicembre 1969, attraverso il racconto di Benedetta Tobagi.