La Queen, la Regina che non ce ne possono essere altre, Elisabetta II, è morta. L’annuncio in total black della BBC e quello della nuova premier della Gran Bretagna Liz Truss, i figli al capezzale nella tenuta di Balmoral. 96 anni, 70 anni di regno da quando fu incoronata dopo la morte del padre Giorgio VI. Aveva poco più di venticinque anni e nessuno avrebbe immaginato una cavalcata così regale tra due secoli.
La piangono la Gran Bretagna e il Commonwealth e tutto il mondo, perché Elisabetta negli anni è diventata la Regina, assumendo un ruolo che l’ha proiettata al di là della monarchia di un Paese. Sempre più Regina, ogni anno che è passato, salda e solida sul trono di fronte a cui sono passati i primi ministri inglesi e i capi di stato del mondo, lei sempre lì che sembrava immortale, i 50 anni del Regno, poi i 70 fino ai 90 del compleanno.
Aplomb, grazia, misura, un’adesione ferrea al codice regale, e la continuità in cui via via si è riconosciuto un Paese e che ha esaltato il suo ruolo di collante simbolico, in tempi sempre meno propensi a riconoscere autorità, tanto più quando fondate sul sangue e sul diritto ereditario.
Elisabetta è stata più forte dei suoi tempi, una di quelle personalità che il proprio tempo lo seguono ma a un certo punto invertono il rapporto, lo superano in una dimensione che non può più essere sottoposta alle mode e alle contingenze. Sta qui uno dei motivi, se non il più importante, che hanno fatto di Elisabetta la Queen: questo sussiego gentile e impenetrabile, distaccato, con un filo di ironia appena accennata nel sorriso vicino e remoto, la sua capacità di imporsi con un’immagine più forte dell’effimero tracimante di ogni giorno e di restare se stessa, Elisabetta, la Regina.
È così che è diventata una compagna di viaggi, non un amica familiare, ma una presenza su cui contare perché Elisabetta stava lì, qualunque cosa accadesse, le guerre, le rivolte, gli attentati, l’Irlanda, lo zio Mountbatten che salta in aria, i passaggi da un titolare all’altro di Downing Street, il sessantotto, la minigonna, i Beatles, i mondiali di calcio, i tories e i laboristi, la guerra all’Argentina per le Falkland, il Covid.. Elisabetta stava lì, una garanzia apotropaica, la certezza che qualcosa nel divenire di tutto può rimanere al suo posto, con tutto il decoro e la maestà necessarie, come il comandante di un vascello che non c’è tempesta che lo possa scalzare dal ponte di comando.
E questa resistenza gloriosa non accadeva solo perché quel trono le era toccato, ma per uno stile inimitabile, non sottoposto a sbalzi estemporanei, per un rigore inappuntabile e identico a se stesso preso in un circuito virtuoso con qualcosa che chiamiamo carisma perché non sappiamo dire altrimenti della capacità di colpire gli altri che si proiettano, si immedesimano e entrano in un contatto profondo e misterioso.
A pensarci bene, quanto è stata favolosa questa storia della Regina! Non assomiglia alla fatina della favole, appunto, che non cede di un passo e nel buio della notte appare per dare la sua rassicurazione?! D’altronde, anche a lei è toccata una favola, quella turbinosa della Royal Family, di Filippo di Edimburgo con la sua fedeltà e le sue gaffes, dei figli e dei nipoti, che spesso non sono stati irreprensibili, matrimoni falliti, separazioni, passioni nascoste a stento alla curiosità gossip dei tabloid, fino all’akmé drammatica di Diana Spencer che sposa Carlo e entra in rotta di collisione con il mondo-etichetta regale e finisce, come sappiamo, nel tunnel de l’Alma di Parigi. Fu il momento più difficile per la tenuta stessa della monarchia e ci volle il consiglio prezioso di Blair, certo, ma anche l’intelligenza di lei, della Regina, che seppe ricucire uno strappo che si stava aprendo con la sensibilità del popolo.
È stata se stessa e tante cose Elisabetta e tutte hanno collaborato e costruirne il mito irraggiungibile. Anche la quotidianità che tante curiosità ha anch’essa suscitato, l’amore per i corgies, la passione per i cavalli, i viaggi, quei vestiti color pastello come i cappelli e la borsetta, la mitica borsetta della Regina, sempre al braccio, accessorio inseparabile e benaugurante. E l’ironia che l’ha fatta giocare con la pesantezza della corona e la fatica di metterla sulla testa e partecipare con un altro mito, 007, ad uno spot per le Olimpiadi di Londra.
Vogliamo immaginarla ancora così, lei che si presenta con un sorriso leggero, con la calma imperturbabile di chi, quali che siano i suoi sentimenti, aderisce al simbolo che rappresenta e resta se stessa. Adesso tocca a Carlo III.