O Rey è morto e non ce n’è un altro da proclamare al suo posto, come accade nelle monarchie ereditarie.
Edson Arantes do Nascimiento, universalmente Pelé, è morto in un ospedale di San Paolo all’età di 82 anni, la figlia Kely ne ha dato la notizia: “Tutto ciò che siamo è grazie a te, ti amiamo infinitamente Riposa in pace“.
Era malato da tempo da quando, lo scorso anno, gli avevano trovato una malattia che non perdona, neanche la divinità del calcio, quella che lo ha trasformato da uno sport in arte: gioco, questo è stato Pelé: intelligenza, fantasia, potenza, la velocità di un dribbling irresistibile e un tiro che poteva essere ugualmente di destro e di sinistro. Una differenza con cui replicava amabilmente a Maradona che diceva di essere il più forte di tutti i tempi.
Pelé è stato Pelé e non è il caso di fare paragoni, ha vissuto un calcio molto diverso da quello del campione argentino - con meno stress e soldi - ma soprattutto è stato il primo a diventare un idolo a tutte le latitudini, immediatamente identificato con la quintessenza del calcio, il massimo della classe possibile, l’esempio irraggiungibile per tutti, a cominciare dei bambini che lo hanno venerato, quelli della sua terra, il Brasile, in particolare: “Il più grande successo della mia vita non sono state le coppe o le medaglie, ma sapere di aver aiutato tanti ragazzi di strada che guardandomi hanno capito che lottando si può arrivare ovunque, perché nulla è impossibile se lo vuoi davvero”.
Questa aura mitica lo differenzia da chiunque altro e impedisce qualunque tentativo di metterlo in una qualche classifica, perché quando si dice mito non si usa la parola a caso. Pelé dal terreno di gioco, per le imprese che vi ha compiuto già mentre era in vita è diventato il mito di sé stesso ed è stato assunto in un iperuranio dove ha subito una sorta di trasfigurazione. Re appunto, leggenda, monumento che solo a pronunciarne il nome voleva dire deferente e totale ammirazione per un uomo diventato la stessa cosa del suo sport. Bulimico del calcio e bulimico anche nella vita. Tre mogli, cinque figli ufficiali e altri non riconosciuti, nati dalle tante storie di cui non si privò: “Non sono stato un buon padre - ammetteva - forse perché lavoravo troppo non mi sono mai reso conto di quello che succedeva vicino a me”.
Poi, se per un momento volessimo cedere a quella tentazione del confronto, si potrà anche dire che Pelé è stato il versante apollineo del calcio a fronte di Maradona che ne ha invece impersonato il lato oscuro, selvaggio, orgiastico, ribelle.
E anche questo ci riporta ad un’immagine di equilibrio, senza lacerazioni, appagata di se stessa, consensuale perché non divisiva, come ha fatto per decenni da ambasciatore del pallone, da testimonial mai polemico, mai di traverso - va detto - rispetto agli sponsor e anche i governi del suo paese, come gli accadde quando al ritorno dal mondiale vinto contro l’Italia nel 1970 si fece fotografare accanto al presidente Medici, certamente interessato ad illuminare il suo regime con la luce di quel fenomeno, o quando fu ministro dello sport e coltivò per un poco anche l’ambizione di diventare presidente.
Quello del Messico, per la cronaca fu il terzo mondiale vinto da Pelé che ne giocò in tutto quattro, dall’esordio stupefacente nel 1958, 17 anni, quando segnò sei gol di cui tre in semifinale e due in finale - uno con un pallonetto, un sombrero, a scavalcare il difensore, per riprendere il pallone al volo e spedirlo in rete - contro la Svezia di Liedholm, a quelli del ‘62 quando, dopo un esordio con un gol, per un infortunio saltò tutte le altre gare, al ’66 in Inghilterra dove fu bersagliato dalla violenza di marcatori tollerati dagli arbitri e il Brasile fu eliminato, fino al ’70 in cui trascinò i verdeoro alla vittoria con 4 gol di cui uno segnato nella finale contro l’Italia svettando di testa sull’incredulo Burgnich. A conferma di non avere limiti nel modo di andare a rete e dunque di essere… illimitato e per questo perfetto. Come sottolineò con un titolo a piena pagina e proprio dopo quel trionfo il Sunday Times: “How do you spell Pelé? G-O-D”.
Poi, ci sono i 1281 gol in 1363 partite, record assoluto riconosciuto dalla Fifa che lo proclamò calciatore del Secolo. Il millesimo lo segnò il 19 dicembre del 1969, tredici anni dopo aver debuttato nel Santos, la sua unica squadra se si esclude la stagione finale, dal ’75 al ’77, con i Cosmos di New York, insieme a Carlos Alberto, Chinaglia e Beckenbauer, con i quali concluse la carriera il primo ottobre del ‘77 con una partita amichevole con il Santos dove segnò un gol.
Inizio folgorante perché fu subito, a sedici anni, capocannoniere del campionato paulista, attirando da subito le attenzioni dei gradi club europei, dal Manchester, al Milan, all’Inter, con il presidente Moratti che gli fece firmare nel ’58 un regolare contratto ma dovette recedere di fronte alla rivolta popolare. Nel 1961 il governo brasiliano dichiarò Pelé “Tesoro nazionale”, in modo da impedire qualunque passaggio all’estero.
Il calcio era stato la rivincita per chi veniva dalla povertà ed aveva fatto il lustrascarpe e per giocare s’era dovuto accontentare di stracci o di un calzino riempiti di carta.
Pelé, proprio in quel tempo, lo avevano chiamato i compagni, per farlo arrabbiare, rimarcando la pronuncia sbagliata del nome di un portiere, Bilé, che lui chiamava… Pilé. Quanto avrebbe preferito, non mancava di ripeterlo, essere chiamato Edson che poi rimandava all’Edison inventore della lampadina, quella che lui accendeva ogni volta che scendeva su un campo di calcio.