di Guido Barlozzetti
Due nuovi personaggi entrano nell’album della fiction della Rai in onda in queste settimane. Marco Merani, proprietario e artefice in un cantiere dove si costruiscono gommoni dalle prestazioni eccellenti, interpretato da un attore amato dal pubblico, Beppe Fiorello, e Marco Buratti detto l’Alligatore a cui da un corpo e una voce inconfondibili Matteo Martari.
Personaggi e interpreti molto diversi fra loro, come d’altronde fa capire anche la collocazione delle due serie - Gli orologi del diavolo su Rai1 e L’Alligatore su Rai2 - a conferma di una differente vocazione delle reti, ammiraglia generalista, la prima, dunque rivolta al pubblico più largo e popolare, mentre l’altra accoglie prodotti più ambiziosi sul piano del linguaggio e più spostati e trasgressivi rispetto alle convenzioni e alle buone costumanze.
Tratta dalla storia vera di Gianfranco Franciosi che l’ha raccontata con Federico Ruffo in un libro che ha lo stesso titolo della serie, Gli orologi del diavolo racconta del tunnel oscuro e rischioso in cui va ad infilarsi il protagonista, talmente bravo da suscitare l’interesse di un cartello di narcotrafficanti che vogliono avvalersi delle sue barche per il trasporto della droga. Il problema nasce quando lui informa un amico poliziotto, Mario (Fabrizio Ferracane), e gli viene proposto di infiltrarsi nell’organizzazione criminale. Marco Merani è un uomo normale, ha una moglie, Flavia (Nicole Grimaudo), una figlia, Joy (Gea Dall’Orto), che lo amano e una famiglia felice e coesa, un fratello Jacopo (Marco Leonardi) che con il padre Antonio (Roberto Nobile) gestisce un ristorante, vorrebbe restare lontano da quel girone infernale, ma gli eventi e il senso di responsabilità alla fine gli fanno accettare un incarico in cui non ha coperture di nessun genere e dove nessuno potrà ufficialmente proteggerlo.
A quel punto il suo tragitto all’interno del cartello si intreccia con le difficoltà crescenti nei rapporti con la famiglia che non capisce le sue assenze e le interpreta come un tradimento inspiegabile.
Le cose si complicano ancora di più perché la relazione con Aurelio (Alvaro Cervantes), il capo dei narcos, si sviluppa all’insegna di una sincera amicizia, per cui Marco si troverà in mezzo, intrappolato in una missione senza ritorno, con la moglie che a un certo punto lo lascia, con la polizia in cui qualcuno fa anche un doppio gioco nei suoi confronti, scisso fra la coerenza di un impegno da mantenere e la lealtà verso Aurelio che lo chiama El mecanico, lo tratta come un fratello e per ogni viaggio che compie con i suoi gommoni gli regala un orologio... Insomma, Fiorello deve dare fondo a tutte le sue risorse di attore per destreggiarsi al meglio con un personaggio complesso che, a un certo punto, finirà in un carcere della Francia e incontrerà un’altra donna, Alessia (Claudia Pandolfi), separata con un figlio, che molto lo sosterrà nel tormentato percorso che lo porterà alla conclusione. In cui, ovviamente, la giustizia trionfa e, tuttavia, resta aperta un conto, a futura memoria. E magari… a futura serie.
Gli orologi del diavolo è una produzione di Rai Fiction con Picomedia in collaborazione con Mediaset Espana, con la regia di Alessandro Angelini. Gioca tra i generi, il poliziesco, il family drama, l’action…, con grande sfoggio di mezzi e set che passano dalla foce del Magra, dove Merani ha il suo cantiere, alla Punta Tarifa della Spagna, da Marsiglia al Venezuela.
Tutt’altra aria dalle parti de L’Alligatore, tratto dai romanzi di Massimo Carlotto. Qui lo sfondo è quello della provincia di Padova e in particolare della Laguna Veneta.
L’acqua la fa da protagonista. Siamo in un mondo laterale, ai margini, immoto, un poco malato, in cui si muove, quanto basta, Marco Buratti, indolente, bottiglie di Calvados, sette anni di carcere per non aver voluto rivelare il nome di un amico difensore dell’ambiente e alla caccia di chi lo inquina, una donna bellissima, Greta (Valera Solarino), con cui cantava in una band di blues e che l’ha lasciato, perché lui ha un cuore anfibio, gli basta galleggiare a pelo d’acqua e non gli riesce di mettere un piede stabile da nessuna parte.
Quando esce dalla detenzione, vive alla giornata, sregolato e senza disciplina, borderline nei modi e nel comportamento, ma non indifferente perché un codice ce l’ha, improntato a un senso della giustizia personale e intransigente che lo porta a occuparsi di casi che coinvolgono disgraziati che non interessano a nessuno, storie disperate che vorrebbe risolvere a modo suo, da investigatore che non ha licenza e senza poliziotti in mezzo.
Per arrivare alla verità può contare sull’aiuto dell’amico ambientalista Max (Gianluca Gobbi) detto la Memoria perché ha un archivio di tutto, e Beniamino Rossini, un inedito Thomas Trabacchi, mala milanese, conosciuto in carcere, capelli lunghi e modi spicci, con cui si perde in dialoghi che ricordano quelli strampalati e esistenziali di Pulp Fiction.
Non bastasse, succede che Greta finisce nella camera da letto del boss imprenditore Castelli (Fausto Maria Sciarappa), l’antagonista-piovra che si serve di un cattivo tanto spietato quanto frustrato, Pellegrini (Andrea Gherpelli).
Poi ci sono le donne, con Greta, Marielita (Shalana Santana) che sta con Max, Sylvie (Maya Talem) con Rossini e Virna (Eleonora Giovanardi) che dal bancone di un bar perso nella laguna si intriga con l’Alligatore.
Insomma, personaggi fuori di sesto, lontani dalla normalità, le atmosfere lagunari, balere e locali della notte, una musica blues che l’Alligatore non cessa di ascoltare, anche se ha deciso che non canterà più.
Matteo Martari presta la sua fisicità scontrosa e ruvida all’Alligatore e si candida a centrare la sensibilità di un pubblico che ha già adottato un irregolare scorretto come Rocco Schiavone.
Se volessimo mettere la serie in qualche cassetto di genere o trovargli dei rimandi citazionisti, si possono richiamare il poliziesco all’americana hard boiled, il cinema di genere italiano anni Sessanta/Settanta, Gli intoccabili di Brian De Palma, vezzi e umanità tarantiniani, la coppia di Starsky & Hutch… La regia è di Daniele Vicari che ha saputo dare un’unità stilistico-ambientale originale e coinvolgente al mondo de L’Alligatore.