di Guido Barlozzetti
Forse è esagerato dire che l'Australia stia bruciando, però colpisce l'entità apocalittica degli incendi che dallo scorso settembre stanno devastando una parte di quell'immenso paese, in particolare negli stati di Nuovo Galles del Sud, Victoria, Sud Australia e Queensland.
E' vero, l'Australia è un continente, grande quasi quanto l'Europa tutta, ha una superficie di 7.6 milioni chilometri quadrati, ma gli 8/9 milioni di ettari andati a fuoco sono comunque una dimensione imponente, corrispondente a un paio di volte la Lombardia, tanto per dare una misura.
I danni sono gravi, migliaia di case, una trentina di vittime, una cifra che non si riesce nemmeno a quantificare di animali morti, in una terra caratterizzata da ecosistemi assai particolari e sconosciuti nel resto del mondo.
Tutti abbiamo visto le condizioni in cui si sono trovati i koala, che sono assurti a simbolo della devastazione, qualche stima parla di una perdita di addirittura il 30% della specie. Effetti drammatici insomma sulle cose, sugli uomini, sull'ambiente con centinaia di milioni di tonnellate di Co2 riversate nell'atmosfera.
Quello che impressiona è la diffusione inarrestabile degli incendi e il senso di impotenza che l'ha accompagnata, quasi che nulla potesse essere messo in campo con una qualche efficacia da parte degli uomini, condannati a assistere allo scatenarsi di un evento dalle proporzioni così gigantesche.
Gli interventi aerei non possono andare oltre una funzione ritardante, decisiva essendo l'azione delle squadre a terra ostacolata però dalla scala degli incendi e dalla velocità di propagazione dovuta anche all'azione del vento. Unica speranza, in sostanza, l'auto-esaurimento.
Adesso, sembra paradossale, sono arrivate le piogge, che hanno aiutato sicuramente l'opera ardua dei pompieri, e sono annunciate tempeste di sabbia e grandine. Dunque, se per un verso gli effetti sugli incendi possono essere positivi, c'è il rischio di inondazioni e alluvioni.
Non è facile capire veramente cosa stia accadendo. I commenti sulla vicenda australiana la ricollegano al più ampio discorso sul climate change e non sono pochi gli studiosi che sostengono una stretta correlazione.
Un aspetto che ha sorpreso è stata la simultaneità degli incendi che hanno contemporaneamente interessato diverse regioni del continente, a differenza di quanto successo negli ultimi anni. Va ricordato, per chiarire il quadro, che nelle savane del centro-nord australiano ogni anno si verificano incendi di proporzioni ancora più grandi, nella stagione particolarmente secca dell'estate, ma parliamo di eco-sistemi del tutto diversi da quelli sconvolti dall'ondata di fiamme nell'area sud-orientale.
Sulle cause è difficile, dunque, mettere un punto fermo. br> Hanno un peso certamente i fulmini, specie nelle zone più remote, ma va anche ricordato che 24 persone sono state denunciate con l'accusa di incendio doloso, il 40% minorenni.
Alcuni dati, peraltro, sono di per sé evidenti: dal 1900, l'ultimo anno in Australia è stato il più caldo e secco, con un aumento di un paio di gradi della temperatura media e la diminuzione di un terzo delle piogge.
Tra le cause possibili per quanto riguarda il contesto meteorologico sono stati indicati fenomeni diversi e variamente concomitanti: una condizione dell'Oceano Indiano che ha fatto sì che aumentasse il differenziale di temperature tra le coste africane e le australiane, il cosiddetto dipolo, il surriscaldamento della stratosfera della zona antartica che ha portato aria secca sul continente e infine lo spostamento verso Nord dei venti occidentali, i cosiddetti contralisei.
Conseguenza naturale il disseccamento delle piante e, dunque, l'aumento della possibilità di trasformarle in un combustibile micidiale. Parliamo del bush, arbusti, eucalipti, un sistema ambiental-floreale semi-arido, per certi versi capace di proteggersi dagli incendi e di autorigenerarsi, ma intanto facilmente aggredibili dalle fiamme.
Va aggiunto, tutt'altro che secondario, l'effetto mediatico. Settimane e mesi di immagini hanno prodotto nello spettatore globale una sindrome apocalittica, che avrebbe bisogno di meno emozione e titoli-scoop, e di più discernimento e approfondimento scientifico.