VITE E FATTI MEMORABILI (ALMENO PER ORA)

VITE E FATTI MEMORABILI (ALMENO PER ORA)

Il giorno di Capaci e della morte di Giovanni Falcone

di Guido Barlozzetti

 

Oggi, 29 anni fa. Tre Fiat Croma stanno viaggiando sull’autostrada che porta dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Quella al centro è guidata dal giudice Giovanni Falcone che ha accanto la moglie Francesca Morvillo; la precede una delle due di scorta con gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Diciillo; l’altra segue con a bordo gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Quando il piccolo corteo giunge allo svincolo di Capaci, Giovanni Brusca da una collinetta aziona il telecomando che fa esplodere tredici bidoncini con 400 chili di esplosivo. Investite dall’onda d’urto, la prima vettura viene sbalzata ad alcune decine di metri e i tre agenti muoiono sul colpo, quella con Falcone e la moglie impatta sul cumulo di cemento e detriti, i due sono ancora vivi, ancorché feriti gravemente, vengono portati in ospedale dove muoiono la sera. Sia pur feriti, gli agenti della terza auto scendono e si schierano a proteggere l’auto di Falcone. Nel carcere dell’Ucciardone, a Palermo, i mafiosi detenuti festeggiano.
È il 23 maggio 1992 e l’attentato sconvolge il Paese, mentre in Parlamento si sta votando per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica.

La strage fu l’atto culminate di una strategia decisa dalla “Commissione regionale” di Cosa Nostra in una riunione nell’autunno ’91, in particolare da capi storici come Totò Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Madonia e Benedetto Santapaola. Una lunga serie di attentati in risposta alla conclusione in Cassazione e alla conferma delle condanne del maxiprocesso di Palermo, iniziato nel 1987 con 475 imputati e chiuso dalla sentenza definitiva del 30 gennaio 1992.

Per la prima volta la mafia veniva messa alla sbarra e condannata, grazie all’azione coordinata e sistematica del pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto e formato da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lelio, e grazie all’inedita consapevolezza dello Stato nei confronti dell’associazione mafiosa che all’inizio degli anni Ottanta aveva perpetrato una serie di omicidi di cui erano rimasti vittime il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il segretario regionale della DC Michele Reina, il commissario Boris Giuliano, il giornalista Mario Francese, il candidato a giudice istruttore di Palermo Cesare Terranova, il Presidente della Regione Piersanti Mattarella, il procuratore Gaetano Costa, il capitano dei carabinieri Basile, il segretario regionale del PCI Pio La Torre e altri ancora.

È giusto ricordare i nomi di chi cadde sotto i colpi della mafia e le vicende di quegli anni, a testimonianza di uno scontro frontale in cui per la prima volta lo Stato arrivava al cuore dell’organizzazione criminale e ne metteva in discussione il potere.

L’attentato di Capaci, inquadrato nella reazione violenta e assassina della mafia, rappresentò al tempo stesso una vendetta, un’intimidazione e un ricatto nei confronti dello Stato.

Sarebbe stato seguito poco dopo, il 19 luglio, dalla strage di Via D’Amelio, in cui vennero uccisi Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, dalla morte di mafiosi inaffidabili come Ignazio Salvo (e poco prima di un politico discusso come Salvo Lima: un altro segnale al governo allora presieduto da Giulio Andreotti?), poi il fallito attentato a Maurizio Costanzo e quelli a Firenze (Via dei Georgofili), Roma (San Giorgio a Velabro e Palazzo Laterano) e in Via Palestro a Milano, e infine l’attentato che avrebbe dovuto colpire lo Stadio Olimpico.

Si è detto del ruolo fondamentale di Giovanni Falcone. Erano nato a Palermo nel 1939 ed era entrato nella magistratura nel 1964. Nel ’79 accettando l’offerta del giudice Rocco Chinnici era entrato nell’ufficio istruzione della sezione penale in cui svolse un ruolo decisivo nella riorganizzazione del contrasto all’azione criminale.

Alle prese con la prima inchiesta su Rosario Spatola, un incensurato costruttore palermitano, si rese conto che bisognava cambiare metodo e passo e che le indagini dovevano affrontare i risvolti bancari e patrimoniali in modo da seguire tutti gli spostamenti legati al denaro e ai traffici illegali. Su questa linea, non solo dimostrò che il banchiere Michele Sindona si trovava a Palermo quando la mafia americana aveva organizzato il suo finto rapimento alla vigilia del giudizio che lo riguardava, ma si recò negli Stati Uniti per discutere di mafia e avviare una proficua collaborazione con la magistratura di New York, con risultati consistenti contro il traffico dell’eroina e con l’acquisizione di nuove esperienze a cominciare dal ruolo fondamentale dell’informatica.

Sempre su questa strada si sviluppò, con Chinnici prima e Caponnetto poi, il lavoro del pool antimafia con una visione finalmente organica e sistematica delle indagini, sottratte alla dispersione e alla frammentazione.

La storia di quella stagione mette in fila l’arresto di un mafioso eccellente, Tommaso Buscetta, l’intimidazione crescente nei confronti del pool che costrinse Falcone e Borsellino a proteggersi nel carcere dell’Asinara, dove iniziarono a preparare l’istruttoria che portò al maxiprocesso che iniziò il 10 febbraio 1986 per concludersi nel dicembre dell’anno successivo. A quel punto si verificò un episodio significativo, essendo arrivato al limite della pensione Caponnetto, nella successione Falcone venne sconfitto e la scelta del Consiglio Superiore della Magistratura premiò il consigliere anziano Antonino Meli. Un segno di contrasti, rivalità, invidie e ambiguità che venne a bloccare oggettivamente l’iniziativa del giudice e certamente ne manifestò la debolezza. Meli sciolse il pool e Falcone dovette subire l’ulteriore umiliazione di vedersi preferire Domenico Sica per il vertice dell’Alto Commissariato per la lotta alla mafia. E ancora il fallito attentato all’Addaura e, nel Palazzo di Giustizia di Palermo, le lettere del “corvo” volte a delegittimare Falcone e altri magistrati impegnati sul fronte mafioso, seguite da una stagione di veleni in cui dall’interno stessa della magistratura e da livelli diversi della politica l’azione e i metodi di Falcone vennero messi in discussione con una sostanziale volontà di delegittimazione, mentre il giudice chiudeva le indagini sui “delitti politici” e si concentrava sulla ricerca di Totò Riina.

In ogni caso, cresceva l’isolamento, ostacoli, azioni parallele volte a limitarne il raggio d’azione, la convocazione da parte del CSM per difendersi da un esposto presentato dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando. In quella sede Falcone affermò che “non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l'anticamera della verità, è l'anticamera del khomeinismo”. E, poco dopo, in una trasmissione televisiva: “Questo è il paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è la tua che non l'hai fatta esplodere”.

Insomma, le vicende di Falcone sono emblematiche di un groviglio inquietante di contestazioni che testimoniano delle divisioni e delle ambiguità all’interno dello stesso Stato, in particolare di un intreccio equivoco tra la politica, la magistratura e la stessa organizzazione mafiosa, su cui si sono affaticate indagini che arrivano fino ad oggi. Non a caso furono durissime le polemiche sulla decisione del ministro Martelli di conferire a Falcone un ruolo di “superprocuratore”.

Una coincidenza paradossale, il giorno in cui egli ottenne i numeri per essere eletto, la sua macchina che correva da Punta Raisi arrivò allo svincolo di Capaci…
Due giorni dopo, mentre a Roma Oscar Luigi Scalfaro viene eletto Presidente della Repubblica, si svolgono i funerali con grandi contestazione dei politici presenti.

La magistrata Ilda Bocassini, incaricata delle indagine sulla strage di Capaci, dichiarò nell’aula del tribunale di Milano:
“Due mesi fa ero a Palermo in un'assemblea dell’ANM. Non potrò mai dimenticare quel giorno. Le parole più gentili, specie da Magistratura Democratica, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi lo ha definito un nemico politico. Ora io dico che una cosa è criticare la Superprocura. Un'altra, come hanno fatto il Consiglio Superiore della Magistratura, gli intellettuali e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che Giovanni non fosse più libero dal potere politico. A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l'unica strada possibile, il ministero della giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. Ed è stata una rivoluzione”. Fallita.

 

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