di Guido Barlozzetti
E’ stata preceduta da polemiche la presentazione di J’accuse – il titolo originale mi sembra assai più efficace ed evocativo de L’ufficiale e la spia con cui è uscito in Italia – il film di Roman Polanski già in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.
Il film, sarà bene ricordarlo subito, rievoca un caso giudiziario-militare che agitò la Francia di fine Ottocento e nel 1898 portò alla degradazione di Alfred Dreyfus, un ufficiale d’artiglieria accusato di spionaggio e per questo condannato alla deportazione a vita nell’Isola del Diavolo, Guyana francese.
E sarà bene anche ricordare che Dreyfus era ebreo e che l’antisemitismo in quegli anni era forte e prepotente in Francia, una pianta non solo lì dalle radici profonde che non cessa di alimentarsi.
Furono incandescenti le polemiche che accesero il Paese fra i pro e i contro la condanna di Dreyfus, fra questi ultimi un numero uno della letteratura come Emile Zola che tuonò con tutta la sua stazza contro i persecutori e le macchinazioni ordite nel processo con una lettera aperta al Presidente della Repubblica Félix Faure, pubblicata il 13 gennaio 1898 sul giornale socialista L’Aurore con il titolo cubitale J’accuse…!
Un altro presidente, anzi la presidente della giuria veneziana, la regista e sceneggiatrice argentina Lucrecia Martel, ha scosso la Mostra sostenendo che, non potendosi separare l’opera dalla personalità di chi la realizza, sul film si allungava l’ombra del mandato di estradizione emesso nel 1977 dagli Stati Uniti contro Polanski per un’accusa di violenza sessuale.
Il direttore della Mostra, Alberto Barbera, ha replicato che, al contrario, un’opera vale per quello che dimostra di sé e che la scelta di accoglierlo Venezia dipendeva solo e soltanto dalla bellezza di J’accuse e dal giudizio di un critico (cioè lui). Poi, la Presidente, che forse non aveva misurato bene le parole, ha cercato di ridimensionare e, in ogni caso, il film, paradosso del destino, ha vinto il Gran Premio della Giuria.
Paradossi che però dicono di un contesto e che non possono non riverberare sulla storia di Dreyfus quella del regista, ebreo e anche lui inseguito da un anatema giudiziario, da una macchia indelebile e da un mandato di estradizione che, nonostante gli accordi intervenuti con la parte offesa, lo costringe a non uscire dalla Francia.
Quale che sia la realtà di quella vicenda e nel contesto di una condizione esistenziale segnata dalla diaspora, il suo cinema ne è stato attraversato. Basta scorrere i suoi protagonisti per vederli sempre alla mercé di qualche oscuro e misterioso potere, il diavolo, il vampiro, i nazisti, i sevizi segreti, una maledizione, il destino… al punto da far pensare che debbano espiare una qualche terribile e primordiale colpa, neanche personale ma radicata nei secoli, nei millenni e ancora di più, come ci ricorda il racconto biblico della fuga degli ebrei dall’Egitto e della loro quarantennale divagazione nel deserto in attesa di entrare nella Terra Promessa, che peraltro rimase preclusa alla guida profetica di Mosé.
Viene da pensare che, in questo senso, J’accuse possa essere un esorcismo e una metafora del potere e del suo double face, che può schiantare, così come risollevare dalla polvere. E la speranza, ma solo quella, è di ritrovarsi alla fine con la versione più clemente e solidale.
Polanski sceglie un particolare punto di vista. Il film comincia con la scena della degradazione di Dreyfus (Louis Garrel) davanti alle truppe schierate e a cinici generali che parlottano, ricordando quella della fucilazione alla fine di Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick, ma subito al centro del racconto si installa il capitano Piquart (Jean Dujardin).
E’ lui, ufficiale in carriera, che viene messo a capo della Sezione Statistica, una topaia che in realtà è un servizio di controspionaggio, la stessa da cui erano uscite le accuse a Dreyfus.
Non gli ci vuole molto per sentire un’aira omertosa e aprire cassetti che rivelano come quelle imputazioni siano state appositamente costruite, anche perché le informazioni che dovrebbero restare segrete continuano ad essere passate ai tedeschi. Da qui alla denuncia il passo non è semplice e il film racconta la lotta certosina e ostinata di Picquart contro la ragnatela di ostacoli che si trova di fronte, perché il filo che segue lo sta portando nelle stanze più alte dell’esercito. Con lui si schiera la Francia libertaria, dal futuro presidente Clemeceau a Zola che contribuisce alla causa con l’editoriale del titolo.
La pervicacia di Piquart viene premiata e Dreyfus ritorna dall’Isola del Diavolo. Alla fine, si ritrovano l’uno di fronte all’altro, Dreyfus esacerbato e velenoso, Picquart, diventato ministro della Difesa, che gli ricorda quello che ha fatto e lo saluta senza salamelecchi.
La sceneggiatura di Robert Harris – con Polanski anche ne L’uomo nell’ombra - è un congegno articolato e solido che cadenza la ricerca di Picquart.
Polanski ricrea l’ambiente ambiguo del caso, silenzi, depistaggi, minacce, i palazzi tetri, le stanze polverose e piene di carte, le manovre che falsificano per costruire la verità che serve.
Segue Picquart che si muove nel Castello del Potere e, alla fine, trova il filo che lo porta da Dreyfus e alla verità – questa sì – che lo salva.
C’è anche lo spazio, forse non necessario, per una liaison sentimentale del capitano con Emmanuelle Seigner – un po’ a mezz’aria fra tutte quelle uniformi.. – e per un’apparizione fin troppo compiaciuta di Luca Barbareschi (fra i produttori insieme anche a Rai Cinema) che fa il verso fatuo e ridanciano a un déjeuner sur l’herbe.