Si è conclusa la sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Premio del pubblico, sponsor FS, a Mediterraneo di Marcelo Barrena che rievoca la storia di Open Arms e di un impegno nel soccorso ai migranti. I numeri dicono di oltre 37mila biglietti venduti e di 55mila ingressi comprendendo pubblico e accrediti, per un riempimento delle sale dell’89%. Una quota significativa tenendo conto del momento per certi versi drammatico che la sala buia sta attraversando, nonostante la riapertura completa decretata dal governo. 66 i film proposti, compresi quelli della sezione parallela Alice nella Città, per un totale di 326 proiezioni nelle tre sale dell’Auditorium e in 36 variamente sparse nella città.
Grande soddisfazione hanno espresso il presidente della Fondazione Cinema per Roma Laura Delli colli e il direttore Antonio Monda. Hanno ribadito l’importanza di questa edizione, venuta dopo quella travagliata dello scorso anno e totalmente in presenza. Hanno ricordato l’obiettivo della qualità e della varietà nella selezione dei film proposti e l’attenzione alle registe - in totale sono state 22 - e espresso la convinzione che la Festa sia ormai un appuntamento radicato e consolidato. Alla fine l’impressione che più hanno sedimentato i dieci giorni della manifestazione mi pare sia quella legata al red carpet. Il tappeto rosso ne costituisce infatti il cuore e testimonia di uno spirito aperto alla partecipazione del pubblico e alla costruzione di un rapporto diretto fra i protagonisti del cinema e lo spettatore. Non solo, insomma, i film da vedere perché quella di Roma è dichiaratamente una Festa non un Festival. Ne riprende alcuni tratti, a cominciare dalla selezione delle opere ma rimarca un suo differenziale non facendone il perno esaustivo della manifestazione e rinunciando alla liturgia dei Leoni e delle Palme.
In questo senso, la passerella ne costituisce il rito fondamentale che ha visto arrivare all’auditorium Jessica Chastain - protagonista surreale e complice con Andrew Garfield di The Eyes of Tammy Faye di Michael Showalter, il mondo ambiguo dei telepredicatori americani - Johnny Depp, Quentin Tarantino e Tim Burton, questi ultimi due venuti a ritirare il Premio alla carriera… Protagonisti indiscutibili che si sono offerti, chi più chi meno, chi con palese partecipazione, chi con qualche ritrosia, alle telecamere, ai microfoni, ai flash dei fotografi, alle mani protese dei tanti assiepati dietro le transenne custodite da agguerriti e intransigenti uomini della sicurezza. Ovviamente gli illustri ospiti non sono venuti soltanto per passeggiare, la festa li ha coinvolti in incontri e master class che hanno riempito le sale.
Del film vincitore - del premio assegnato dal pubblico e non da una giuria di competenti - si è detto, della selezione si possono ricordare anche Dear Evan Hansen, adolescenziale coming of age di Michael Showalter, un sontuoso Cyrano in chiave musical diretto dal “letterario” Joe Wright e interpretato non da un ipernasuto ma da un attore affetto da nanismo, Peter Dinklage, già consacrato dalla serie tv Il trono di spade, L’Arminuta di Giuseppe Bonito (premio BNL, main partner della Festa), la tredicenne “ritornata”, restituita dalla famiglia che l’ha adottata alla povertà anche e soprattutto di affetti di quella d’origine, Passing di Rebecca Hall, sofisticato racconto in b/n di due donne nere che si fanno passare per bianche e reincontrandosi fanno emerge rimozioni e bugie, l’atto d’amore nei confronti del cinema di One second di Zhan Yimou e il gioco leggero di una coppia che vuole fare un documentario sull’amore di coppia in Una pelicula sobre parejas, il tenero road movie di zio e nipote in C’mon c’mon di Mike Mills, l’amore clandestino di Mothering Sunday di Eva Husson nell’Inghilterra classista degli anni Venti, i primi episodi dei “disegnetti” di Zerocalcare che diventano i fumetti animati di Strappare lungo i bordi, il distopico anti-algoritmo E noi come stronzi rimanemmo a guardare di Pif con De Luigi e Pastorelli, I Fratelli De Filippo di Sergio Rubini che si vendicano con il loro talento di un padre che li ha diseredati, la storia autobio di Kenneth Branagh che in Belfast (migliore regia nella sezione Alice nella Città) racconta delle separazioni dolorose provocate alla fine dei Sessanta dai Troubles, il conflitto nell’Irlanda del Nord tra cattolici e protestanti, il magico Petite maman (miglior film in Alice nella città) di Céline Sciamma, un bosco e la piccola Nelly che incontra un’altra bambina che si chiama Marion come la madre.
Nutrita e solida la squadra dei documentari, Caterina Caselli, Eugenio Scalfari (ritratto dalle figlie Enrica e Donata), la produttrice fascinosa e altera Marina Cicogna, il presunto Salvator Mundi di Leonardo (The Lost Leonardo) e Frank Miller, leggendario disegnatore di Batman/Il cavaliere oscuro e della serie Sin City.
Ma tanti sono stati i rivoli del programma, dalla retrospettiva su Arthur Penn agli Omaggi e restauri (una menzione per Vitti d’arte, Vitti d’amore che Fabrizio Corallo ha dedicato alla Monica di Antonioni e de La ragazza con la pistola che nella clausura di una malattia il prossimo 3 novembre compie novant’anni, e per il sempiterno C’eravamo tanto amati di Ettore Scola), i Film della nostra vita, narcisistica autoselezione del Direttore Artistico e dei membri del Comitato che lo assiste e, appunto, gli Incontri ravvicinati che oltre ai personaggi citati hanno visto l’incedere di Marco Bellocchio, Luciano Ligabue con Fabrizio Moro, Zadie Smith, Joe Wright, Alfonso Cuaròn, Luca Guadagnino…
È quasi tutto. La Festa ha chiuso, magari qualche riflessione la farà, anche su una collocazione che resta un poco sospesa e, nonostante gli sforzi, ancora alla ricerca di una riconoscibile identità che vada oltre il perimetro romano-italico. Ma Festa è stata e per il Cinema è comunque una buona notizia.