Sulla distesa del palcoscenico auto anni Sessanta, sono parcheggiate qua e là, le luci dei fari che bucano una nebbia, accanto una giostra. Sul fondale, mentre l’orchestra esegue il Preludio, un grande schermo su cui vediamo un uomo al posto di guida, anziano, sofferente, vestito come in quegli anni. Scende, apre il porta bagagli e ne tira fuori dei fiori che comincia a spargere intorno, poi si accascia, le spalle appoggiate a una fiancata, e dalla tasca dei calzoni tira fuori una catenina. E piange, disperato…
Siamo al Circo Massimo di Roma, nel luglio del 2020, è appena finito il lockdown imposto dal Covid e il Teatro di Roma con la direzione dell’orchestra di Daniele Gatti e la regia di Damiano Michieletto mette in scena una delle opere che con Il trovatore e La traviata compongono la cosiddetta “trilogia popolare” di Giuseppe Verdi, Rigoletto. Uno dei capolavori dell’immaginario della lirica, arie memorabili come “Questa e quella per me pari sono”, “La donna è mobile” o “Sì, vendetta, tremenda vendetta”.
È un atto di speranza firmato dal Teatro dell’Opera di Roma e affidato a una messa in scena sorprendente che il regista ha pensato come film-opera, in una sfida che metta insieme linguaggi diversi, la fissità di uno spettacolo nel teatro e il dinamismo, la forza di scomposizione dell’immagine e di reinvenzione del quadro che il cinema consente.
Prodotto da Indigo Film e Rai Cinema, Rigoletto al Circo Massimo va in onda il 30 dicembre in prima serata su Rai3, seguito da Rigoletto 2020, il film-documentario di Enrico Parenti che racconta l’avventura e il farsi dello spettacolo dal vivo nelle difficoltà e con i problemi prodotti dalla pandemia.
Michieletto è un regista/autore che lavora sulla contemporaneità di una rappresentazione, che non vuol dire semplicemente attualizzare i costumi e gli ambienti. Piuttosto, punta a eliminare gli stereotipi di una tradizione a costruire un dispositivo di comunicazione che sia in grado di coinvolgere il pubblico e accendere le emozioni. Siamo su una frontiera, insomma, su cui calano anche le polemiche dei puristi che interpretano la fedeltà al testo come la ripetizione di un modello immodificabile e fermo alle atmosfere che ritualmente si associano all’opera. Che vuol dire anche non pensare che il pubblico è cambiato e che l’opera non è un oggetto fuori dalla storia da riproporre secondo una sua originaria e immutabile identità.
Quella di Michieletto è dunque una sollecitazione a un pubblico che conosce i ritmi e le visioni del cinema, abituato all’analogico del palcoscenico e però anche al digitale delle immagini: ecco allora l’incastro tra ciò che accade sul palco e le immagini che scorrono sullo schermo, appositamente realizzate con tre steadycam che reinventano le prospettive, dinamizzano ogni staticità e consentono allo spettatore di salire sulla scena e di entrare nello spettacolo.
Decisivo in questa operazione il ruolo dei cantanti - Roberto Frontali/Rigoletto, Rosa Feola/Gilda e Ivàn Ayòn Rivas/Duca di Mantova - tutti capaci di uscire dall’immagine canonica del cantante lirico melodrammatico e di provarsi nel rendere più che l’enfasi di un testo, la sua vitalità carica di sentimenti.
"È un'opera che sembra già cinema - ha detto il regista - un'opera dal grande ritmo che ha tutte le caratteristiche di quello che oggi potremmo chiamare un noir”. Rigoletto, in questo senso, non ha nulla di rassicurante, “La cornice - sottolinea ancora - doveva raccontare qualcosa di esuberante, di eccessivo e anche di violento, per questo motivo ho scelto una sorta di banda criminale che fa da contorno alla tragedia di questo padre e di sua figlia. Perché Rigoletto si muove in un mondo di puttane, killer e contro un cinico che disprezza le donne”.
D’altronde, lo stesso Verdi scriveva nel giugno 1850 che “Tutto il soggetto dell’opera è in quella maledizione che diventa anche morale”, la maledizione scagliata sul buffone di corte Rigoletto che, per proteggere la figlia Gilda dalle mire del Duca di Mantova, mette in atto un piano che si rivela autodistruttivo. Resta il filo della trama, ma dentro e intorno si sviluppa una macchina visiva che si fa forte della modernità delle tecnologie e dei linguaggi della comunicazione, piegati a una nuova espressività.
Un progetto che diventa ancor più significativo perché si realizza in un contesto imprevedibile e drammatico, il post-lockdown del 2020, dunque all’interno di un’emergenza che impone misure di sicurezza e distanziamenti. Per Michieletto un limite che si rovescia in una risorsa creativa: “I limiti, i paletti devono essere sempre un trampolino. Devono sempre essere vissuti come un'opportunità, perché nel momento in cui tu li vivi come dei limiti stai già perdendo. I limiti possono essere l'occasione la possibilità per creare qualcosa di inaspettato che faccia dire woaw a chi la vede."
Va in scena un evento che rigenera un’opera e celebra i centocinquant’anni dalla prima, l’11 marzo 1851 alla Fenice di Venezia. Verdi la trae da Le Roi s’amuse di Victor Hugo, dramma in cinque atti, la prima alla Comédie Française nel novembre 1832, in cui la censura vide un attacco all’allora Re di Francia Luigi Filippo al punto che una sentenza negò per cinquant’anni i diritti per una rappresentazione.
Anche il compositore - e il librettista Francesco Maria Piave - si dovettero confrontare con gli Austriaci e furono costretti ad apportare modifiche, prima di tutto sostituendo il Re di Francia con il Duca di Mantova e spostando l’azione nel Seicento. Poi, dovettero cambiare anche il titolo, prima La maledizione di Vallier, poi La maledizione e infine e per sempre il nome del protagonista, il francese Triboulet che diventò Rigoletto.