di Guido Barlozzetti
L'Italia e il mondo che amava Fausto Coppi assistettero alla sua morte sconcertati e impotenti. Se ne andò per una malaria diagnosticata troppo tardi, dopo nemmeno una settimana di febbri devastanti, alle 8.45 del 2 gennaio del 1960. Reduce da un viaggio-tournée in Burkina Faso insieme ad alcuni colleghi tra cui Raphael Geminiani, Jacques Anquetil e Roger Rivière, Coppi torna con una malattia che esplode incontrollabile dopo un paio di settimane. A Parigi, invece, Geminiani è ricoverato e salvato all'Istituto Pasteur.
Così, mentre la Penisola stava entrando nel decennio del Miracolo Economico, scompariva il Campionissimo che con il suo stile aveva portato il ciclismo nella modernità. E oggi, a sessant'anni da quella fine tragica e inaspettata, siamo qui a ricordarlo e a chiederci perché ancora sentiamo il bisogno di ricordarlo e rimpiangerlo. Aveva appena compiuto quarant'anni Coppi e le stagioni delle imprese epiche e vittoriose erano ormai lontane, ma il mito durava e sarebbe durato, ancor più alimentato da quel repentino trapasso che lo coglieva nel mezzo di una vita che, se tanto aveva dato all'agonismo, molto ancora avrebbe potuto dare a se stessa e allo sport. Cos'è, allora, che lo ha imposto nel suo tempo e lo ha proiettato in una dimensione che va oltre i suoi anni e ne ha fatto una figura esemplare, per tanti versi unica e inarrivabile? Perché di lui si continua a scrivere come si fa con una leggenda? Perché il Giro d'Italia nel suo percorso ogni anno intitola al suo nome la cima più alta che i corridori devono scalare? Viene subito da dire che Fausto Coppi non era solo un ciclista e non era neanche soltanto l'avversario di Gino Bartali, in uno dei più affascinanti dualismi delle due ruote, che divise i tifosi in schieramenti l'un contro l'altro armati.
Correva con i suoi avversari, ma stava da un'altra parte. Apparteneva, infatti, a quella specie rara che al profilo del campione aggiunge qualcosa che lo fa entrare nel cuore del pubblico e nell'immaginario e non solo quello del suo tempo. Qualcosa che muove le folle fino all'identificazione e al delirio di un rapporto amoroso. Le sue vittorie, certo, hanno pesato, i cinque Giri d'Italia, il primo nel 1940 battendo proprio il capitano che si chiamava Bartali, l'ultimo nel 1952, i due Tour de France, le tre Sanremo, i cinque Giri di Lombardia, la Parigi Roubaix, il Mondiale su strada a Lugano.. Non bastano però a spiegare, né potrebbero, il mito. E' vero, ha vinto tanto, ma neanche tantissimo, in una carriera che, va ricordato, ha subito l'interruzione brutale della guerra, quando aveva appena vent'anni. Per capire l'alone irresistibile che Coppi ancora oggi emana bisogna guardare altrove. E allora la prima cosa da fare è tornare a guardarlo nei filmati che ogni tanto la televisione ripropone o che si trovano, basta digitare, sulla rete.
E' così che risalta subito un'evidenza, l'esilità di un corpo naturalmente elegante che contraddiceva l'immagine tradizionale del ciclista appesantita dallo sforzo e prostrata dalla fatica. Coppi, l'airone che vola via, come lo chiamavano, rompe quello specchio di sudore e di polpacci sformati dallo sforzo e disegna sull'occhio di chi guarda una traiettoria armoniosa e inimitabile. Nessuno è come lui, nessuno dei campioni con cui pure ha duramente battagliato e che spesso lo hanno battuto, oltre a Bartali, Fiorenzo Magni, Hugo Koblet, Rik Van Steenbergen, Louison Bobet.
Fausto è la bellezza che pedala sul sellino di una bicicletta e dunque appartiene all'estetica e non solo dello sport. Insomma, è la naturalezza di un prodigio che la retorica dei media, soprattutto della radio che, in quel tempo prima della televisione, ha solo la voce di un cronista, fa assurgere all'immortalità, "un uomo solo è al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi". E' il 10 giugno del 1949, diciassettesima tappa del trentaduesimo Giro d'Italia, la Cuneo Pinerolo, e così Mario Ferretti celebra il trionfo che dà a Coppi il primato.
E poi c'è un aspetto che oggi forse fatichiamo a capire. Coppi è un italiano che vince negli anni che seguono la disfatta della Seconda Guerra Mondiale, vince a nome di tutti gli Italiani che stanno ricostruendo il Paese e hanno bisogno di esempi e di speranza. Con le sue vittorie incarna l'orgoglio e le attese di un Paese e non lo delude. Infine, c'è lo Scandalo, la vita privata che si mette di traverso rispetto a quella pubblica. Coppi è sposato e s'innamora di Giulia Occhini, la "Dama Bianca", nel 1954 abbandona la famiglia e la relazione sconvolge le abitudini e i costumi di quegli anni ancora patriarcali, contadini e ecclesiali.
Coppi travalichi lo stretto perimetro dello sport e sia percepito nella ricchezza, anche contraddittoria della sua umanità, pubblica o privata che sia. La morte che lo colpisce ancora relativamente giovane diventa il suggello di questa assunzione nel mito. Il Campionissimo è sconfitto dalla sfortuna di una malattia che poteva essere facilmente curata. Questo paradosso lo sottrae alla normalità dei giorni e lo proietta nell'altrove senza tempo, oltre la morte che lo ha colpito ma solo per ingigantirne l'epopea a futura memoria.