Caldo.
La temperatura era così alta che la scarsa umidità del terreno evaporava.
Esalazione rovente sotto le zampe.
Io mi aggiravo nel mio territorio patendo i morsi della fame mentre le mie due leonesse erano a caccia e tardavano a rientrare...
Sognavo di loro, predatrici di una bell'antilope o di una gazzella sacrificate per la nostra sopravvivenza... questo pensiero mi stordiva.
Il mio stato, ridotto pelle e ossa, mostrava con evidenza la mia età.
Un vecchio leone che incedeva con passo incerto nel suo regno: dal fiume alla radura.
Ancora penso che se il mio avversario non mi avesse visto camminare in quel modo... se solo mi avesse scorto sostare immobile sulla sommità della collina non lontano dal fiume... forse sarebbe andato via a cercare un altro regno da conquistare.
Si sarebbe scoraggiato, non potendo valutare la mia forza, e io avrei potuto reagire solamente con un poderoso ruggito a distanza.
Ma la storia è un'altra, gli dèi decisero altrimenti: vollero che io mi mostrassi in tutta la mia debolezza, digiuno da giorni, appesantito dal caldo e dalla fatica.
L'usurpatore, un maschio giovane con velleità da re, mi attaccò alle spalle.
Si avvicinò felpato, schiena bassa, orecchie indietro e coda strisciante.
Prima di vederlo, lo sentivo.
L'effluvio dei suoi ormoni adrenalinici arrivava come una corrente.
Ancor prima di avere il tempo di inviare a mia volta un messaggio olfattivo mi aveva già aggredito, i suoi canini sul collo e gli artigli a lacerare la cute sotto la mia, non più folta, irta pelliccia.
Voleva il mio regno e le mie femmine.
Il territorio dal fiume alla radura... la collina, i pochi alberi e gli arbusti.
La mia acqua e i miei animali.
Voleva tutto e si prese tutto lasciandomi abbattuto, perdente e solo.
Al tramonto ero un leone più morto che vivo.
Ma la notte non mi portò via e all'alba del giorno dopo ancora respiravo sicché ritrovai qualche energia per alzarmi, seppur tra mille dolori e ferite pulsanti.
Avevo perso parecchio sangue e diversi insetti stavano già sui bordi degli squarci e delle graffiature della pelle.
Con cura mi leccai le ferite e poi a passi veramente lenti abbandonai per sempre il mio regno, senza nemmeno lanciare un ultimo sguardo alle mie compagne.
Ero un leone esiliato.
Per giorni e giorni vagai cibandomi di pelle secca trovata su carcasse già spolpate.
Mi sentivo seguito dagli sciacalli, premurosi necrofori in attesa della mia morte... quella fisica, visto che l'anima era già stata distrutta e umiliata.
Le giornate torride sembravano accelerare questo processo ma fu proprio grazie alla mia oramai scarsa resistenza al caldo che devo la mia salvezza.
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Cercai infatti riparo in una grotta che raggiunsi a fatica, dislocando solo su tre zampe poiché la destra anteriore era così mal ridotta che non poteva sostenere il mio peso.
La grotta non era completamente buia e aveva il vantaggio di essere deliziosamente fresca.
Ne annusai l'aria... stantia, come normalmente sono le caverne ma, oltre all'aroma ammuffito, vi era un altro odore... di sangue, di preda.
Un istante prima che l'istinto alla caccia s'impadronisse di me, nella penombra scorsi la figura di un uomo.
Il suo sguardo era terrorizzato.
Ero appena stato sconfitto e sapevo cosa volesse dire la paura.
Mi inviò una nuvola fetida di panico che, anziché farmi scattare lo spirito predatore, mi mosse stranamente a pietà.
Inoltre pensai che quell'uomo vivo poteva aiutarmi a guarire.
Se l'avessi mangiato forse avrei solo ritardato la mia morte, che sarebbe giunta comunque per setticemia.
Così non mi mossi e non ruggii ma, con un gesto ampio e lento, alzai la zampa malata e la porsi all'uomo.
Costui, prima rimase impietrito, paralizzato dalla mia presenza.
Poi sembrò capirmi.
Cercò di avvicinarsi, ancora con molta titubanza e mi prese la zampa, esaminandola con cura.
Con le dita estrasse abilmente una spina, una scheggia dura dura e lunga, conficcata nella mia carne.
Ah! Ne ebbi un immediato sollievo e per mostrargli la mia riconoscenza mi stesi ai suoi piedi, con il muso tra le zampe.
Sembrò capire e per dichiararmi la sua amicizia mi carezzò la criniera.
Com'era dolce il suo gesto... mi provocava ondate di piacere, di pace rilassata!
Poi smise, si allontanò verso il fondo della grotta per portarmi del cibo.
Della carne secca o forse no, forse era pesce.
Ma comunque fosse, era un alimento proteico che io divorai in un boccone.
L'uomo mi curò e poco alla volta diventammo amici.
Per diversi mesi dividemmo la grotta e il cibo.
Quando venni rapito ero un leone anziano ma nuovamente molto vigoroso.
Un giorno, di buon mattino, mentre stavo svolgendo una caccia, finii in una trappola.
Una specie di tagliola nascosta.
In poco meno di qualche minuto, una gabbia scese sulla mia testa e sopra le mie speranze riposte nella mia nuova vita con l'uomo.
Ero disperato e ancor più per il pensiero del mio compagno rimasto solo.
Caddi in uno stato di depressione nera.
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I miei carcerieri mi aizzavano con un pungolo, spinto tra le sbarre della gabbia, che mi punzecchiava per provocarmi ira e ruggito.
Erano uomini volgari che parlavano una lingua sconosciuta. Erano evidentemente stranieri.
Mi imbarcarono su una nave che remò per giorni, giorni e giorni.
La mia gabbia era dentro la stiva, completamente buia e con un odore pestilenziale.
Se non sono morto nemmeno in quell'occasione è perché riuscivo a prendere i topi che avevano l'infelice idea di passarmi a tiro di zampa. Ma ce ne erano così tanti che non era difficile la caccia.
Poi giunse il cattivo tempo e dopo giorni di tempesta, in balia delle onde, ruzzolando continuamente in armonia con il devastante rollio dell'imbarcazione, approdammo finalmente in terra straniera: un luogo che chiamavano Roma.
Con mala grazia, la mia gabbia capitombolò fuori bordo, sulla banchina del porto.
L'aria era molto più fredda del mio paese africano e la luce mi feriva gli occhi, dopo tanti giorni trascorsi nel buio della stiva.
Non capivo nulla: c'era un vociare assordante.
"Il leone, il leone... mamma quanto è grosso", diceva un bambino alla madre...
Infine un carro mi trasportò a destinazione: mi liberarono in una gabbia di dimensioni ben più grandi che ospitava altri leoni e che era localizzata in un edificio nel Foro romano. Qui i miei fratelli di sventura mi diedero il benvenuto e mi raccontarono le loro catture e poi altre storie di giochi e di stenti.
Io ero sull'orlo della disperazione.
Che disgrazia, finito in prigionia per vivere di patimenti, in attesa di sbranare qualche essere umano in occasione di gare, giochi e rappresentazioni circensi... perché questo era il costume in quella parte di mondo...
Ero disperato... capite bene che sarei, di lì a poco, divenuto l'esecutore di pene capitali!
Il boia di molti padri di famiglia, di tanti innocenti condannati dall'impero romano.
Un conto è procacciarsi il mangiare. Un altro è che qualcuno sfrutti il tuo stato di necessità per la sopravvivenza, al fine di programmare la morte altrui.
Ciononostante, dovetti accettarlo. Mi adattai alla nuova condizione perché non avevo altra scelta.
Mi sentivo parte di una macchina di morte. Quando vedevamo che i nostri carcerieri non ci nutrivano per un periodo superiore a quattro giorni, sapevamo che volevano affamarci perché, di lì a poco, ci sarebbe stato uno spettacolo.
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Qualche volta le nostre vittime ci combattevano, tentavano il tutto per tutto per rimanere in vita ma, noi, vincevamo sempre.
Una volta accadde che tolsero da mangiare soltanto a me.
"Vuol dire che ti vogliono esibire da solo", mi disse il leone più anziano di sevizio.
"Ma non è possibile, non sono né giovane né bello!", risposi io stupefatto.
"Però sei il più grande di taglia", replicò il mio compagno, "vorranno fare uno spettacolino scenografico... esigenze di copione, chissà!"
Questa cosa mi contrariava più dell'ordinario. Ero seccato, di pessimo umore. Mi sentivo ridotto a mero fenomeno da baraccone.
Mi rinchiusi per giorni in un totale mutismo.
Ero nervoso e mi calmava solo il ricordo della libertà nel mio meraviglioso regno perduto.
Finché non arrivò a tirarmi fuori dalla nostra prigione uno tra i più rozzi degli aguzzini. Prese frusta, museruola, uncino e guinzaglio per legarmi ben bene.
Venivo portato, come al solito, presso il Circo Massimo.
Era una giornata gelida e assolata. Quando uscii con la gabbia da trasporto vidi un cielo magnifico. Un azzurro intenso.
Fuori da quel circo si sentivano suoni di musica, applausi, risate sguaiate.
Infine l'annuncio:
"Tra poco, alla presenza dell'Augusto Imperatore Caligola, avverrà la lotta tra il fuggitivo Androclo e il leone."
Io entravo nel circo mentre veniva letto il profilo della mia vittima:
"Androclo, schiavo di provincia africana, dopo aver derubato il suo patrizio padrone, proconsole imperiale, si diede alla fuga. Ma dopo un anno di vagabondaggio egli venne scoperto e arrestato da una legione e quivi portato per essere giustamente condannato.
Nella sua magnificenza, l'Augusto Caligola ha concesso a voi lo spettacolo della lotta e della morte del criminale, per le fauci del più possente dei leoni circensi... LUI!", così concluse girandosi verso di me, additandomi con un gesto scattante.
Seguirono un lungo rullo di tamburi e le esclamazioni di stupore del pubblico. Il mio aguzzino mi fece fare un intero giro perimetrale dell'arena. Ogni tanto mi dava una frustrata per fami ruggire, così da impressionare la gente.
Poi mi collocarono nella cavea inferiore, in attesa del condannato.
Ero furioso. Mi muovevo a scatti per i nervi e per la fame.
Poi con un fragore di ferraglia arrugginita si alzò la grata che mi separava dall'arena circolare e io uscii correndo e alzando molta polvere dal suolo.
Nessuno parlava.
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Sul lato opposto vidi l'uomo di nome Androclo a cui avevano slegato i polsi e le caviglie, dunque era libero nei movimenti. Ma rimase fermo, in piedi, con le spalle lievemente ricurve.
Io a passi lenti mi avvicinai, seguendo istintivamente l'andatura tecnica della caccia.
Avevano armato l'uomo con un bastone... ma vedevo che lo impugnava male.
Questo non costituiva un pericolo: sarebbe stato molto facile attaccarlo e ucciderlo.
Ma quando fui proprio d'appresso al suo corpo, mi sembrò che mi balzasse il cuore dal petto.
Non era possibile... ma pure era vero... il mio compagno africano... lì, davanti a me! Riconoscevo il suo odore... inconfondibile!!!
Colui che mi aveva guarito, salvato la vita... come avrei potuto attaccarlo?
Mi avvicinai al colmo dell'emozione proprio mentre lui stava per sferrarmi un colpo in testa.
Capii che non mi aveva riconosciuto sicché schivai il bastone e feci un mezzo giro attorno a lui, trovando il modo di leccargli la mano destra e poi strofinare la testa sul suo fianco. Gesto che facevo molto spesso, in segno di affetto e per intendere la nostra appartenenza al medesimo branco.
Androclo (il suo nome lo seppi solo allora), capì immediatamente e buttò in terra il bastone. Si chinò su di me e mi gettò le braccia al collo, con la testa affondata nella mia criniera.
Il pubblico, da una corale esclamazione, di stupore passò a grida di gioia.
Tutti pensarono si trattasse di un segno degli dèi... certamente nessuno poteva conoscere la nostra storia...
Poi all'unisono la folla, girata verso l'imperatore, scandì in sillabe: "LI BE RO, LI BE RO, LI BE RO!!!"
Caligola si alzò in piedi. Per alcuni lunghi attimi rimase zitto e immobile.
Il pubblico smise di gridare.
L'imperatore attese ancora qualche attimo. Poi tese il braccio destro in avanti e alzò il pollice della mano verso il cielo... segno della grazia nei confronti del condannato.
Androclo venne liberato... e con lui anch'io... i miei carcerieri non mi volevano più. Mi malmenarono con il bastone che Androclo lasciò in terra, imprecando come matti contro gli dèi.
Allora intervenne il mio compagno e mi tirò via, scappando di corsa dal circo.
Pochi giorni dopo riprendemmo il mare. Io in una gabbia e Androclo come rematore volontario (era l'unico modo per rientrare in Africa senza un denario).
Ora viviamo felici, in una bella casa con un grande giardino, dove io, re in esilio, trascorro il mio tempo.
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