Marco Polo

[Racconto di Paola Manoni]



Parla il Mozzo:

Quando Messer Polo mi reclutò per il suo viaggio, io avevo sedici anni.
Ora che son tornato in patria, in Olanda, sono un uomo fatto.
Impiegammo tre anni a mettere la prua della nave sulla rotta di casa.
Tre anni in cui ci fermammo a visitare paesi meravigliosi, a fare affari mirabili
Lasciavamo le coste dei nostri scali con le stive piene di ogni ben di Dio.
Messer Polo acquistava spezie di ogni genere.
"La spezia", diceva, "è come moneta circolante.
Non deve essere battuta e si scambia in tutta Europa."
Quell'uomo emanava un grande fascino.
Non si intendeva affatto di navigazione.
Però lo rispettavo come se fosse il comandante.
Era il padrone, è vero, ma si sa che per noi marinai l'armatore conta molto poco.
Mi ricordo di una volta quando, al largo delle coste di Sumatra, venne da me (prima di allora non mi aveva rivolto la parola).
C'era bonaccia, regime di venti variabili, qualcuno si sentiva male a causa del rollio a cui era sottoposto lo scafo.
La nausea si era impossessata di molti marinai e sembrava non volerli lasciare.
Messer Polo, vestito di velluto, apparve dal tambuccio a poppa, a dritta, e con un saltello superò l'ultimo scalino.
Io ero alla ruota del timone e lo osservavo incuriosito.
Lui captò la mia attenzione e, a sua volta, mi ricambiò.
Io a quel punto feci il vago e concentrai i miei sforzi sulla conduzione del veliero.
Ero un mozzo ma, fin da allora, più di un comandante aveva avuto fiducia in me e mi accordava degli incarichi di responsabilità.
Sicché facevo i turni al timone e ne andavo veramente fiero.
Messer Polo non cambiò direzione ai suoi pensieri e decise di venire verso di me.

"Ragazzo, come ti chiami?", mi chiese.

La voce non era perentoria, ma suadente.
Sentivo che oltre a dirgli il mio nome avrei potuto fare molto di più per lui, se solo me lo avesse chiesto.
"Wilhelm", risposi io senza celare una certa carica di entusiasmo.

"Bene Wilhelm, dammi qualche informazione sulla rotta."

Io non me lo feci ripetere due volte e snocciolai tutti i dati di navigazione che avevo in mio possesso:
"Navighiamo per rotta vera 280 gradi e prevediamo di avere una corrente da 50 gradi, sicché manteniamo una rotta bussola di 295 gradi per evitare la deriva.
Il vento è al giardinettoo e questo ci dà un certo vantaggio poiché la componente dello scarroccio è quasi nulla."
Non badai molto se avesse conoscenze di navigazione per comprendere le informazioni che gli avevo dato.

"Quante miglia da Sumatra?", mi chiese ancora.

"Oh, Signore, circa 150 miglia e faremo scalo." risposi sicuro.
"Vede, signore, gli uccellini che si sono posati sulle sartie?
E' segno che presto vedremo terra!"
Messer Polo si rivolse verso l'albero maestro per guardare l'uccellino che già da qualche ora si riposava sulla barca.

"Ragazzo, mi sembri un marinaio in gamba, ma vorresti fare qualcosa in più per me?"
Io ero soggiogato da quello sguardo intenso.

"Ditemi signore...", risposi di slancio.

"Dovresti andare a ritirare della mercanzia in mia vece, appena sbarchiamo."

Ero entusiasta: "Ne sarò lieto, signore!"
Allora cercavo affermazione e qualunque cosa mi consentisse di mettermi in luce era bene accetta per me.
Quella giornata staccai il turno al timone al crepuscolo.
Scesi alle cucine per un tocco di pane e un sorso d'acqua.
Mi spettava anche una razione di minestra ma non ne avevo voglia.
Sognavo di mangiare meglio ma avevo anche un sottile filo di nausea da combattere.
In cucina avevo serbato un grande cristallo di sale in un barattolo e ogni giorno lo controllavo per verificare l'umidità dell'aria.
Lo assaggiavo con le labbra.
Me lo avevano insegnato in Cina, il sale indica l'umidità dell'aria.
Portai quindi alla bocca il sale.
Bagnato fradicio.
Avvisai il comandante della mia osservazione, così come della presenza di nuvole merlate basse, all'orizzonte, presagio di cattivo tempo.
Non mi diede retta.
Ma di lì a poco tempo si scatenò l'inferno.
Appena calata la notte, il vento girò e non potevamo più navigare a favore di vento.
Fummo costretti a deviare la rotta poiché avevamo il vento sul naso, cioè direttamente sulla prua.
Poi il temporale e tutti gli uomini furono richiamati sulla coperta.
Non contavano più i turni di riposo.
Dovevamo lavorare tutti e non si potevano rispettare i quarti.
Il mare stava diventando enorme.
Nell'oscurità si percepivano sinistri frangenti che si rompevano in rivoli d'acqua.
Dovevamo salire subito in testa d'albero per ammainare tutte le vele.
O avremmo scucito irrimediabilmente tutta la tela.
Intanto i tuoni e i fulmini completavano la scena.
E mentre lavoravo con un altro compagno sull'albero di mezzana, sento camminare una persona sulla coperta, proprio sotto di noi.
Messer Polo nella notte.
Cosa ci faceva il padrone?
"Messere!", urlai dall'alto, "E' pericoloso!

Tornate nella vostra cabina, ve ne prego.
Questo è un lavoro da mozzi, non è un posto per voi!"
Ma non mi diede retta.
Rimase a inzupparsi, le mani stampate sulla balconata per reggersi e non cadere fuori bordo.
Le onde montavano e il timoniere si dovette legare per reggere lo sforzo al timone.
Qualche compagno, livido dal mal di mare, vuotava lo stomaco, con mille lamenti.
Io avevo mangiato solo del pane duro... sicché mi sentivo leggero e non sofferente.
Combattemmo il cattivo tempo tutta la notte.
All'alba il mare si placò e qualche ora dopo si scorgeva la costa.
Riprendemmo rotta appena potemmo.
Eravamo stremati.
Avevo ripreso il turno di riposo e, anziché scendere nella mia cuccetta, mi accoccolai come un gatto al sole.
Stavo per prendere sonno, quando una mano mi scosse una spalla.
"Messere!", faccio un cenno per alzarmi ma lui mi blocca.

"No, riposa!
Dimmi solo se stai bene e se i tuoi compagni sono tutti in vita."
"Stiamo tutti bene, più o meno", rispondo spigliatamente.
E riprendo il riposo.
Riaprii gli occhi in prossimità del porto.

 

 

 
 Torna al menù del racconto  Torna al sommario