Parla Galdino, il cenciaolo:
osalinda, mia sorella, fece due colpi di tosse mentre impastava l'acqua con la farina.
Nessuno ci badò.
Infornò le focacce nel forno e una volta cotte le mise sul davanzale della finestra per farle freddare.
La sua tosse aumentava.
La sera a cena tutti i suoi familiari mangiarono quanto Rosalinda aveva preparato.
Non trascorse una settimana e mia sorella, nel delirio, lasciò questo mondo con emorragie violentissime dalla bocca.
Nell'arco di un mese toccò a tutti i suoi sette figli e a suo marito.
Una famiglia decimata, la prima a essere colpita a Pistoia e attraverso la quale fece ingresso la più crudele delle malattie: la peste.
Correva l'anno 1348.
A seguire, i miei amici e molti miei familiari morirono nel giro di poco tempo.
Io rimasi con mia moglie Fiammetta, la quale andava in chiesa quattro volte al giorno.
Pensava che così avrebbe protetto entrambi noi dal flagello.
Trascorrevo tutto il giorno nella mia bottega dei cenci.
Ben presto compresi che la peste avrebbe avuto delle conseguenze disastrose sui miei affari.
Di questo mi diede conferma la Giunta cittadina, incaricata dal Collegio degli Anziani, e dal Gonfaloniere di giustizia di Pistoia.
La Giunta studiò una serie di misure importanti per evitare il contagio.
Venne stabilito che nessun cittadino o abitante del contado potesse recarsi a Pisa o a Lucca (dove l'epidemia era veramente a livelli catastrofici), pena il pagamento di cinquecento lire.
Una multa enorme, se pensate che la stessa cifra corrispondeva agli introiti di sei mesi di un cerusico.
Chi, invece, ospitava in casa pisani o lucchesi aveva l'obbligo di versare l'ammenda di dieci lire.
Insomma, chi per qualche motivo era costretto ad avere scambi con altre città doveva avere un'autorizzazione da parte del Consiglio del popolo cittadino, messa addirittura per iscritto dal notaio degli Anziani.
Poi si decise sul commercio dei cenci e il provvedimento mi scaraventò nella miseria più nera... nera come la peste.
A tutti i cittadini venne fatto divieto di portare o far entrare in città panni usati, di lino e di lana, pena una multa di duecento lire e l'incenerimento dei panni.
Sui cenci vennero messi anche altri divieti come il carico massimo da portare in caso di viaggio, pari a trenta libbre a persona.
Nessuno più vendeva o comprava cenci.
Nemmeno le cartiere, che solitamente acquistano il tessuto più logoro a basso costo per la fabbricazione della carta, si facevano più sentire.
Il mercato era totalmente fermo.
La sera Fiammetta e io andavamo a dormire con tre noci in corpo e un bicchiere d'acqua calda, aromatizzato con semi di finocchio (ortaggio che solitamente induce un senso di sazietà).
Non potevamo permetterci altro, non avevo un soldo non vendendo più un cencio.
I provvedimenti tutelavano i cittadini e io non potevo fare altro che accettarli.
Un'altra misura contro la peste richiedeva che i cadaveri dovessero essere portati fuori Pistoia in casse di legno inchiodate, affinché il fetore pestilenziale non potesse fuoriuscire.
Ogni morto doveva essere denunciato in parrocchia.
Ogni giorno andavo in chiesa per avere la lista quotidiana dei morti.
Per trovare cosa fare per vivere... mi ero procurato dei chiodi e mi proposi di fare l'aiuto becchino.
Raggranellavo qualche lira per non morire di fame ancor prima che di peste.
Mi procuravo i chiodi e inchiodavo le casse.
La gente mi dava diverse mance anche perché un'altra legge vietava che i parenti del defunto potessero accompagnare la salma oltre la porta della chiesa, dopo il funerale, né potevano fare ritorno nella casa del morto.
Mentre noi, il becchino e io, avevamo libertà di movimento, scaricavamo le casse nella fossa comune e potevamo avere accesso alle case.
Allora mi facevo tramite di quel che la gente mi chiedeva di prendere nelle case dei loro cari e in cambio del servizio ottenevo del denaro.
Non so come mai riuscii a rimanere in vita!
Giocavo con la morte ogni istante, esponendomi così tanto al contagio.
Però cercavo di proteggere Fiammetta.
La evitavo.
Non dormivo mai a casa.
La incontravo solo per darle i soldi.
Per quei pochi contatti che avevamo con il resto del mondo, ci giungevano notizie allucinanti da tutta Italia.
A Venezia, ad esempio, traghettavano tutti i malati e i morti su di un'isola.
C'è chi raccontava col vento di Grecale arrivassero i lamenti dei moribondi fino a Piazza San Marco.
Non era solo un bacillo a dilagare ma anche un'incommensurabile disperazione che stava modificando la nostra storia.
Non solamente da un punto di vista demografico, visto che i morti superavano di gran lunga i nati.
Il mutamento era soprattutto di coscienza, di attitudine alla vita.
La gente, timorata da Dio, contava il tempo nell'attesa della fine.
L'angelo della morte era nei giochi dei bambini, era nelle strade, negli incubi degli uomini più coraggiosi.
I preti erano chiamati da tutti coloro che temevano di morire senza l'estrema unzione e un gran da fare vi era anche per i notai che trascrivevano lasciti di ricchezze in punto di morte.
Un notaio che si recasse presso la casa di un appestato che faceva testamento veniva pagato somme veramente ingenti... sicché la peste ebbe forti risvolti economici non solo per me ma anche per altre più nobili mansioni!
Altri reagirono alla paura della peste uscendo di senno... e i medici ma anche gli esorcisti (ritenendo che lo squilibrio fosse segno del maligno) cercavano di sanare invano la pazzia.
Però, oltre che individuale, la follia si manifestò anche in una dimensione collettiva, e delle peggiori, ovvero quando si palesa in forme di lucidità.
Mi sto riferendo alla persecuzione contro gli Ebrei, i quali furono di punto in bianco considerati colpevoli della pestilenza.
La gente sentiva di dover trovare un colpevole per le proprie sofferenze.
Così lo cercava in un diverso, sia da un punto di vista religioso che sociale.
Io, cenciaolo, questo lo comprendevo e lo comprendo benissimo ma tanti altri, colti, illustri ed eruditi, la pensavano e la pensano differentemente da me.
Sicché, pur placatosi il flagello della peste, non si estinse la caccia alla diversità.
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