La Pulzella d'Orléans

[Racconto di Giovanna Gra]


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durata 24 minuti - Credits

Parla Giovanna:

Quando chiudo gli occhi rivedo le tue mani che impastano il pane davanti al camino. Quando fingo di morire ai piedi di questi uomini che ogni giorno tentano di strappare lembi della mia anima, ti vedo.
Vorrei chiederti perdono, so che insieme a me hanno preso anche Pierre e ti immagino dilaniata dal dolore. Se io non fossi partita, lui sarebbe rimasto con te... e poi, dopo la morte di Catherine, non sei stata più la stessa.
Non ce la faccio Maman, e forse non riuscirò a mantenere la dignità che mi hai insegnato. La fede vacilla dopo tanto dolore.
Ho bisogno di immaginare cose liete per dimenticare le ustioni, cose lontane per cancellare le piaghe, cose passate per addomesticare le paure di un futuro che non ha più promesse.
Ma io non faccio che pensare a quel giorno... il giorno in cui sono tornata da te. E tu mi guardavi piena di rabbia e di amore e non riuscivi a parlare. Mi dicesti che ero magra, continuavi a chiamarmi Giannina e, borbottando, ti domandavi come potessi andare avanti.
Io avevo i crampi dalla fame, ma gli occhi più affamati dei tuoi occhi per non dimenticarti, per non perdere le rughe che segnavano il tuo volto, quel volto tanto amato che in tutte queste notti ha ingannato il mio dolore.
La sofferenza che ti avevo lasciato alla mia partenza era tutta lì, ricamata nel tuo sorriso, lungo le palpebre degli sguardi attenti, stanchi, rassegnati.
Mi dicesti di aver piantato l'albero al centro del cortile quando ero andata via e sotto quell'albero ora ti sedevi per cercare l'ombra.
(amara) Si, è passato tanto tempo... E volevo dire qualcosa, ma tu eri già altrove. E mi parlavi come se non fossi mai partita, mostrandomi il pollaio appena ricostruito; la mangiatoia per i maiali, la vecchia scrofa rubata dagli inglesi...

(sussurra) Maman... ho provato a sussurrare, ma tu non ne avevi proprio voglia. In tutta risposta indicasti gli alberi e le gemme che spuntavano appena.
Mi dicesti che il babbo ti rimproverava sempre quando perdevi tempo dietro ai fiori perché dai fiori, no, non si ricava nessuna polenta.
Ma tanto non ci badavi. Li trovavi così belli i germogli, e così... così meravigliosa l'idea che tutto potesse rinascere a primavera!
Quante cose ti avrei voluto dire, quanto cose avrei dovuto fare... e non ho mai avuto il coraggio di parlare. Lo sapevo, come lo sapevi tu, che quel giorno era un caso, un caso concesso dal cielo.
Lo sapevi come lo sapevo io che forse era l'ultima volta.
(commossa) "Stringi le mei mani nelle tue, Maman, che son forti e calde."
Pensavo di impazzire e rimanevo lì, immobile, a sentirti parlare di terra fertile, letame e foglie da bruciare. Avrei voluto dirti
(con enfasi): "So quel che provi, insegnami un modo per tornare a ieri, non voglio lasciarti, non voglio che finisca così!"
Ma tu eri già altrove. Mi dicesti che, un giorno, avremmo dovuto rifare il tetto della stalla, ma che ci avremmo potuto pensare in tempo di pace. Parlasti del tuo viaggio, di come saresti andata a Roma a trovare il Papa. Una vera impresa per il tuo mal di schiena!

(timida) Stiamo per partire per Parigi, Maman... Facendo finta di stupirti ti eri asciugata di nascosto una lacrima. E mi avevi quasi incoraggiata, dicendo che Parigi sarebbe stata meno umida della tua casa.
Cercai di dirti addio mentre parlavi di quei fiori bianchi e alzasti la voce di un tono per cercare di non sentirmi. Poi, severa, annunciasti che nessuno sarebbe andato via da casa tua senza aver mangiato. Che i soldati di Francia andavano onorati, che il Signore lo voleva!
In silenzio prendesti le mie braccia esaminando i polsi laceri.

(giustificandosi) "E' l'armatura, Maman, li ha consumati."
Pensavo forse che non te ne fossi accorta? Erano migliaia di anni che vedevi passare gente così ridotta per quella terra di confine. E nessuno se ne era mai andato, da casa tua, senza due morsi e un sorso!

(disperata) "Sì, Maman."
Non avevo altre risposte. Non volevo averne.
Era tardi, molto tardi e rischiavamo di essere individuati, ma dissi al mio scudiero di non preoccuparsi: avremmo bruciato le tappe nei giorni a seguire.
Siamo entrate in cucina, mentre ti rammaricavi che il babbo non ci fosse. Mettendo altra legna sul fuoco mi confessasti che quando lo scorgevi apparire al confine non lo riconoscevi più come un tempo. La vista veniva meno e lui era diventato massiccio e bianco, altri tempi da quando doveva correre presso le monellerie di noi fratelli.

(rumore di un catenaccio, passi minacciosi in avvicinamento)
Qualcuno entra nella cella. Mi trascinano per i capelli, stanno per darmi il pasto giornaliero.
(colpi e lamenti) Mi colpiscono allo stomaco. I colpi arrivano con odio e con forza.
Ascolto la tua voce tenera mentre sputo sangue che annacqua i ricordi ma non li arrugginisce... e mi chiedi apprensiva se la zuppa è sciapa, ma va benissimo, quello è il sapore di casa.

(rumore sordo di un pugno) Un pugno in pieno petto mi riporta alla realtà. Ora so perché mi guardavi così, quel giorno. Tu non volevi parlarne perché non volevi che io ci pensassi.
Il cuore protesta, la bile sputa, il sangue scivola, ma la promessa tiene: né il coraggio né l'impegno, cederanno, Maman!

 

 

 

 

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