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[Racconto di Giovanna Gra]


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durata 24 minuti



"Comprare è molto più americano di pensare, e io sono molto americano."
Forse è tutta qui l'essenza di Andrew Warhola Jr, più noto come Andy Warhol.
Padre o forse guru, in ogni caso maggior esponente della Pop Art, Warhol ha rivoluzionato il modo di fare arte e ha invaso gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta dello scorso secolo con le sue serigrafie, i suoi lungometraggi e le fotografie che lo immortalano solo o insieme ai suoi cortigiani.
Spesso figure di spicco della cultura che, un po' per divertimento e un po' per moda, hanno bazzicato la Factory di Andy perché era proprio inevitabile, se ti trovavi a New York, non rendere omaggio all'amico così originale e così trendy.
Originale, trendy e imprendibile.
La sensazione che si ha, vedendo certi scatti o leggendo gli scritti che lo riguardano, è che Warhol tocchi tutto ma non si faccia toccare da nulla.
E' nel cuore dell'azione, ma sembra non esserne mai coinvolto.
Sicuramente riflessivo, curioso, desideroso di conoscere e di sapere, sempre leader, mai adepto.
Warhol crea intorno alla propria persona un'aura di curiosità continuamente alimentata dalla sua strepitosa capacità di "vendere."
Vendere cosa?
Di tutto, ma principalmente sé stesso.
Andy e la sua corte allo Studio 54, Andy e la sua corte alla Factory, Andy e la sua corte al Max's Kansas City: purché il prodotto sia Andy, c'è sempre qualcuno disposto a comprare.
I primi passi artistici li muove al Carnegie Institute of Technology di Pittsburgh dove studia arte pubblicitaria, ma il battesimo vero arriva grazie a prestigiose riviste quali Vogue e Glamour con le quali collabora appena arrivato a New York, alla fine degli anni '40.
E proprio a New York si esprime la sua creatività destinata a dettare mode e stili di vita, regalandoci la serialità nell'opera d'arte come segno distintivo del suo percorso artistico.
Warhol riduce tutto a prodotto seriale mediante le sue celeberrime serigrafie i cui soggetti, dive inarrivabili come Marilyn Monroe e Liz Taylor, figure politiche e carismatiche come Mao e il Che e outsider come l'avvocato Agnelli, sono ancora adesso status symbol nella pittura mondiale, così come la bottiglia della Coca Cola o il detersivo Brillo.

Tutti i soggetti di Warhol sono uguali e hanno uguale importanza, che si tratti di un fustino, di una banana o di un capo di stato.
E se tutto, uscito dalle sue mani, diventa accessibile e fruibile, significa che è popolare.
Pop, appunto.
E siccome "Comprare è molto più americano di pensare", ecco che Warhol celebra il consumismo innalzando l'arte a prodotto di consumo.
Le sue bellissime e semplicissime serigrafie nobilitano oggetti che abitualmente svettano sugli scaffali dei supermercati, e il mondo del mercato dell'arte attribuisce a quelle opere un valore commerciale immenso.
L'ironico sorriso appena accennato di Andy che ogni tanto fa capolino dalle Polaroid che lo ritraggono a un'inaugurazione o per le vie di New York, ci fa quasi pensare che l'artista sia perfettamente conscio dello scherzo che sta giocando a quel mercato dell'arte che lo sta rendendo ricco.
Ma Andy parla pochissimo, ascolta molto, spia il mondo e dichiara che:
"Se raccogliessero tutte le frasi che ho detto capirebbero che sono un idiota e la smetterebbero di farmi domande."
Chiunque si definisca un idiota non lo è e, naturalmente, Warhol non è un idiota.
Anche perché, ci dice, rivelando una saggezza profondamente lucida che: "Tutte le cose sono nell'aria.
Conta solo chi le realizza."
Non c'è dubbio che lui sia maestro nel cogliere l'attimo, nell'afferrare l'occasione.
E' sicuramente l'uomo (di talento) giusto al momento giusto.
Pittore, scultore, regista, sceneggiatore, fotografo: Andy Warhol sperimenta l'arte del visivo in tutti i modi, non rinuncia ad alcuna forma di comunicazione artistica.
Ed è proprio nella Factory, luogo d'incontro leggendario di musicisti, artisti, transessuali, aspiranti famosi, attori e celebrities in generale che, dal 1962 si sviluppa l'attività febbrile di Warhol e dei suoi amici che lo aiutano a produrre instancabilmente le famosissime serigrafie seriali.
"La Pop Art è un modo di amare le cose", dice.
Ma non solo.
Nella Factory si girano i film underground che Warhol dirige altrettanto instancabilmente.
E se in Kiss ci sono donne e uomini che si baciano per 50 minuti di pellicola, in Eat, Robert Indiana, artista di spicco della Pop Art, mangia in primo piano un fungo (ma qualcuno ipotizza che si tratti di un frutto) per una quarantina di minuti.
Non c'è musica, non ci sono parole, non c'è altra azione che quella di masticare, lentamente, del cibo.
Il colpo di scena del film è rappresentato dall'arrivo di un gatto che si arrampica pigramente sul protagonista e poi se ne va.
Nel lungometraggio Sleep del 1963, Warhol ci regala 321 minuti di un uomo che dorme inquadrandolo da tutte le angolazioni possibili.
Una di queste ricorda incredibilmente il Cristo morto del Mantegna.
Andy lo sa?
E' una citazione?
Ha mai visto il celeberrimo dipinto?
O quella somiglianza così nobile è solo una casualità?
E' in questo che Warhol dimostra la sua immensa abilità: nel non svelarsi mai completamente (anzi, quasi per niente) e nel lasciarci fantasticare sulla sua persona.
Ma siamo portati a pensare che del Cristo del Mantegna non sappia nemmeno l'esistenza, e non per criticarlo o per minimizzare la portata del suo operato, ma perché lui stesso non vuole che ci poniamo concettualmente di fronte alla sua produzione artistica.
Warhol ci regala istantanee della sua contemporaneità.
Ogni sottotesto è bandito.
Non è affatto facile parlare di lui per noi che non l'abbiamo conosciuto.
Ci dobbiamo fidare delle nostre sensazioni, spesso contrastanti.


L'abbiamo già detto: Andy è imprendibile, ma anche ingiudicabile.
Alcuni critici ancora oggi sostengono che sia l'artista più incomprensibile che sia mai comparso sulla scena mondiale.
Ma forse volerlo capire è un errore.
Andy Warhol va guardato, punto e basta.
Alla domanda se gli faccia impressione il fatto che i suoi quadri siano esposti nei musei risponde, leggero:
"Oh, non ci penso mai."
E il mistero Warhol s'infittisce.
Molto più facile sarà stato parlare di lui per le Superstar che frequentavano la leggendaria Factory, le cui pareti argentate illuminavano il jet set newyorchese che affollava l'ambiente tra un'anfetamina e l'altra.
Fra le Superstar di Andy Warhol spiccano Holly Woodlawn, Candy Darling e Jackie Curtis, tre transessuali che orbitarono per un periodo nella Factory e recitarono in alcuni film underground del loro pigmalione.
Candy Darling recitò in Flesh insieme a Jackie e nell'importante Women in Revolt.
Quest'ultimo film vede brillare Holly, Candy e Jackie, ottime attrici estremamente naturali e a loro agio davanti alla macchina da presa.
L'attività cinematografica di Warhol ebbe nelle Superstar le muse ispiratrici, bambole più o meno disperate che stettero al gioco senza prendersi troppo sul serio.
Soprattutto Holly, strepitosa drag queen alla quale il grande Truman Capote, incontrandola ad una festa, disse, convinto e profetico:
"Holly, tu sei il volto degli anni Settanta!"
E quanta gratitudine riserva la spiritosissima Holly (per la quale il maestro George Cukor propose nientemeno che la candidatura all'Oscar per la sua interpretazione nel film Trash) all'amico Andy per tutte le volte che le ha salvato la vita pagando i suoi moltissimi debiti e prestandole soldi a fondo perduto!
La storia di Holly, di Candy Darling, di Jackie Curtis e del loro mentore Andy Warhol è mirabilmente raccontata nel divertentissimo libro di memorie Coi tacchi alti nei bassifondi dove la Woodlawn, insieme a Jeff Copeland, ripercorre la propria mirabolante vita di personaggio inevitabilmente, testardamente e felicemente borderline.
Le Factory furono molte, si succedettero in vari edifici della città, ma la prima si trovava sulla 47ma Strada.
E pullulava non solo di gente, ma anche di idee, spesso scandalose, irriverenti, sicuramente anticonformiste.
A parte un indefesso uso di droghe, l'entourage di Andy Warhol celebrava con assidua puntualità la libertà sessuale, cosa non così scontata negli anni Sessanta.
Anni in cui di emancipazione sessuale si parlava tanto, è vero, ma vederla messa in pratica con la sfrontatezza dei frequentatori della Factory creava non poca sorpresa e non poco scandalo.
Scandalo è forse la parola che più rappresenta Andy Warhol.
In fondo, tutto il suo agire, nel trentennio che l'ha visto sfolgorare e furoreggiare, è scandaloso.
Lo è il suo concetto di arte, lo è il suo cinema, lo sono i suoi amici.
E lo è l'uso che fa delle persone.
Sì, perché non c'è dubbio che tutti coloro che avvicinino il santone della Pop Artcredendo di sfruttarlo e di brillare della sua luce siano, in realtà, sfruttati da lui.
Il loro guru li adopera per accrescere il proprio mito a dismisura, a volte precipitandoli negli inferi.
E' il caso (uno su tutti) di Edie Sedgwick, attrice e modella americana, bellissima ragazza dall'aria felice e splendente che nasconde antichi e radicati problemi di anoressia, un padre orco che abusa di lei dall'età di nove anni, una famiglia ricca e dei fratelli con serissimi problemi psichiatrici.
Il legame fra Edie e Andy è strettissimo.
Lui la lancia, lei diventa la Superstar warholiana per eccellenza.
Ma il loro rapporto è malato, ossessivo.
Almeno lo è da parte di Edie.



Insoddisfatta della propria vita fatta di lustrini, moda, jet set e disperazione, Edie finisce fra le braccia dell'eroina.
L'ultimo periodo della sua vita la vedrà in un ospedale psichiatrico sposa di Michael Post che troverà il suo corpo senza vita dopo solo quattro mesi dal matrimonio.
Quanto l'influenza di Andy ha inciso sull'insicurezza della fragile Edie?
Quanto i due hanno pericolosamente giocato a vittima e carnefice nel corso della loro burrascosissima amicizia?
E ancora, quanto le luci accecanti degli anni d'oro della Pop Art hanno nascosto la realtà regalando, a chi voleva crederci, una vita parallela fatta di inconsistenza e di apparenza pronta a svanire da un momento all'altro?
Quanti si sono identificati senza saperlo nella frase più esemplare e cinica di Warhol che recita:
"Ignoro dove l'artificiale finisce e cominci il reale"?
Se ce ne fosse ancora bisogno, ecco spiegato il Warhol-pensiero.
L'unico a essere uscito vivo dal rapporto con Warhol è Warhol stesso.
Molte sue Superstar sono morte giovani, uccise dalla droga e dalla solitudine.
Molti parassiti che si sono abbeverati alla fama della Factory sono spariti senza lasciare traccia.
Lui, solidissimo e timido ragazzo slovacco immigrato negli States, ha scritto pagine e pagine di storia dell'arte.
Che avrebbe potuto essere diversa, se il 3 giugno del 1968 Valerie Solanas avesse avuto una mira migliore.
Tre colpi di pistola raggiunsero Warhol ferendolo gravemente (ma non mortalmente) e lo costrinsero sotto i ferri di un'equipe di chirurghi.
Lo salvarono per un pelo.
La Solanas, attrice e autrice del dramma teatrale Up Your Ass, frequentatrice della Factory, voleva che Warhol le producesse uno spettacolo tratto dal testo.
Sulle prime Andy non disse di no, ma poi l'operazione naufragò.
La Solanas, che aveva avuto una vita difficilissima costellata di violenze ed abusi, entrò nella Factory e sparò.
Colpì Andy e il compagno Mario Amaya.
ATTRICE SPARA A ANDY WARHOL urlava il titolo del Daily News a caratteri cubitali, e il sottotitolo recitava Aveva il controllo della mia vita.
Perché proprio di questo Valerie Solanas accusava Warhol.
Quindi ecco che ritorna in gioco la pesante influenza che l'artista pop esercitava sui suoi discepoli, e non solo.
Valerie Solanas, attrice, autrice e femminista radicale, era sicuramente un personaggio complicato e, nonostante avesse ottenuto una laurea in psicologia, viveva per strada costretta a prostituirsi.
La New York di quell'epoca l'aveva accolta e, chissà, forse le aveva regalato l'illusione di aver trovato finalmente il suo posto nel mondo e la possibilità di esprimere tutta la rabbia che la sua vita dolorosamente violenta le aveva riservato fino a quel momento.
Andy aveva fatto il resto, accogliendola fra i suoi.
Poi le cose erano andate diversamente, fino ad arrivare al tentato omicidio che, ci dicono le cronache, cambiò radicalmente la personalità di Warhol regalandogli una profonda insicurezza che non lo abbandonò per il resto della vita.
Ma la storia dell'arte non poteva, non voleva fare a meno di lui.
Anzi, la storia vera e propria.
Ancora oggi, infatti, i musei di tutto il mondo lo celebrano con mostre e rassegne.
E ancora oggi tutti noi, che quei ritratti dalle tinte forti li abbiamo visti mille volte, caschiamo nella trappola dell'enigmatico Andy (che in un'intervista definisce Walt Disney il suo pittore preferito) e diciamo che sì, quella è arte, facciamo la fila al botteghino e compriamo il biglietto per l'ennesima esposizione di serigrafie dove sappiamo che saremo inondati dalla celeberrima Campbell's Tomato Soup.
E di nuovo ci troveremo di fronte ad un'incognita: perché immortalare centinaia di volte la più che plebea Campbell's Tomato Soup?
Inutile cercare una ragione che soddisfi noi che viviamo da questa parte di mondo, noi che siamo cresciuti fra Giotto, Goya, Cezanne, Rembrandt, noi europei per cui l'arte racconta sempre qualcosa, ha origine da qualcosa e ci traghetta verso qualcosa, pullula di significati e si colloca nella storia.
Per Warhol non c'è prima o dopo.
C'è ora.


C'è l'immediatezza della cultura di massa americana, ci sono il cinema e i fumetti e la pubblicità.
E una totale assenza di giudizio, di presa di posizione.
Le cose esistono e lui le rappresenta.
Ossessivamente, data la serialità instancabile con cui ci regala l'immagine di Elvis o del dollaro, e proprio questa serialità senza fine depaupera i soggetti che capitano sotto le sue grinfie, togliendo loro la sacralità dell'unicità sostituendola con la quantità numerica.
Mille Marilyn sono decisamente meno efficaci di una.
Se Leonardo Da Vinci ci avesse regalato mille Monna Lisa e i musei di tutto il mondo ne vantassero una decina ciascuno, Monna Lisa sarebbe misteriosa quanto la nostra vicina di casa.
Ma siccome Monna Lisa è una sola e dobbiamo andare fino al Louvre per vederla, dal punto di vista artistico sarà sempre inarrivabile.
Le serigrafie sulle quali Andy interviene coi colori acrilici rendendole così brillanti, quasi sovraesposte, rendono i soggetti prescelti alla portata di tutti.
Così come lui sceglie di rappresentare un detersivo rubandone l'immagine dallo scaffale del supermercato, Marilyn stessa diventa prodotto da supermercato, prodotto da scaffale, come la Coca Cola.
Forse, molti suoi amici e discepoli, non volendo diventare essi stessi prodotti da scaffale, hanno cercato una via d'uscita dalla dipendenza dal loro guru e, se qualcuno c'è riuscito, qualcun altro come Edie ci ha rimesso la vita mentre la furiosa Valerie ha tentato di eliminarlo fisicamente per riacquistare una qualche libertà.
Una cosa è certa: il nostro protagonista era evidentemente dotato di grande fascino.
Non si spiegherebbero sennò i morti e i feriti che ha lasciato lungo il proprio cammino.
Di sicuro, il periodo estremamente florido e variopinto nel quale ha operato, ha rappresentato moltissimo la follia collettiva nella quale l'umanità newyorchese si è trovata negli anni Sessanta e Settanta.
New York era il centro del mondo, la Factory raccoglieva la creme della cultura emergente.
Truman Capote, Mick Jagger, Liza Minnelli, Salvador Dalì, Allen Ginsberg, David Bowie, Jane Fonda (che vediamo garrula e provocante strizzata in una minigonna vertiginosa mentre scherza con Candy Darling in un filmato del '74), Grace Jones, Lou Reed, The Velvet Underground, Viva, sono solo alcuni dei nomi sfavillanti che trovavi amabilmente riuniti a chiacchierare (e non solo!) in quel luogo magico.
E, a giudicare dalla graziosa timidezza che Farrah Fawcett dimostra in un filmato del 1980 di fronte a Andy, viene da pensare che l'influenza del maestro sia veramente grande.
Essere immortalati e serigrafati da Warhol significa diventare eterni.
Tutti lo sanno.
Tutti lo desiderano.
Tre decenni hanno visto la stella di Warhol brillare e rinnovarsi continuamente.
Andy che non si perdeva un'inaugurazione, una festa, un evento, sempre e comunque sulla cresta dell'onda, sempre il più fotografato.
"Andrei all'inaugurazione di qualsiasi cosa, anche di una toilette", aveva detto una volta.
Ma, più profondamente e tristemente, aveva anche lapidariamente asserito che "Finiamo sempre col partire abbracciando la persona sbagliata."
Malinconico?
Forse.
E ossessionato dal lavoro.
"E' la cosa che preferisco più di tutte", aveva risposto a Nancy Blake quando gli aveva fatto notare quanto ne parlasse.
"E poi mi impedisce di pensare ad altro.
Oggi si dice che bisogna trovare il tempo per divertirsi.
Io non sono d'accordo.
Vorrei che si lavorasse di più", continua Warhol.

Nel 1981, Andy Warhol viene filmato dal regista Jorgen Leth mentre mangia un hamburger scartocciandolo dal suo involucro sul quale leggiamo chiaramente Burger King.
E' un filmato che dura quattro minuti e ventisette secondi.
Con calma e precisione Warhol toglie l'hamburger dall'involucro, rovescia del ketchup sulla carta con un sorrisino un po' imbarazzato, intinge l'hamburger e comincia a mangiare.
La macchina è fissa.
Lui mangia e guarda in basso.
Finito l'hamburger raccoglie la carta, il contenitore e mette tutto nel sacchetto di Burger King
Conclude dicendo il suo nome e annunciando di aver mangiato un hamburger.
Questo filmato è diventato un significativo reperto di storia dell'arte.
Un uomo mangia un hamburger (ricordate il già citato Eat del 1963 dove l'amico Robert Indiana mangia per circa quaranta minuti un fungo?) ed è arte.
Dobbiamo quindi pensare che dal 1963 al 1981 non sia passato nemmeno un giorno, se la storia che ci racconta Warhol è ancora la stessa.
O meglio, la non storia.
Lo svuotamento dei significati è così giunto al culmine?
Esiste un fatto meno fatto di quello cui Warhol ci fa assistere, prima da regista e poi da attore protagonista?
Verrebbe proprio da dirsi che il magnetico Andy ci prenda in giro da quel lontanissimo 1928, anno in cui il piccolo Andrew è venuto al mondo col preciso intento di ipnotizzarci.
Ci è riuscito.
Ci ha costretti a conoscerlo, a seguirlo, ad ammirarlo, ad andare alle sue mostre, ad entrare nei cinema (spesso a luci rosse, dati i soggetti dei suoi film) per ammirare i lungometraggi nei quali. non succedeva pressoché nulla.
Abbiamo comprato i suoi quadri, e chi non se li poteva permettere (quasi nessuno!) ha comprato un poster, una cartolina con l'effige di Jackie Onassis, Giorgio Armani, Richard Nixon.
Cassius Clay.
Michael Jackson.
"Sono veramente geloso di chi ha il suo show alla televisione", ha detto una volta Andy Warhol, rimanendo fedele al suo amore per il pop.
Lui ha avuto molto di più.
Ha avuto un posto d'onore e per sempre nella storia dell'arte mondiale.


 

 

 

 

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