Roma è una città dai mille segreti.
Attorno ai suo palazzi, alle sue cupole, ai suoi monumenti si raccontano moltissime storie.
Custodisce misteri, meraviglie e curiosità dovute all'estro e alla genialità degli artisti che in questa città sono giunti per servire una lunga dinastia di papi e di sovrani, contribuendo a farla divenire quel grande caotico e meraviglioso mistero che è.
Solo per fare alcuni esempi, fra queste curiosità possiamo trovare la prima vera strada della storia:
l'Appia antica.
Risalente al 312 a.C. e lunga circa 513 km, l'Appia antica, infatti, è stata la prima strada provvista di pavimento.
Oppure, per chi non la conosce, c'è la meraviglia del chiavistello di Colle Aventino.
Se vi recate in piazza Cavalieri di Malta, alla villa del Priorato di Malta, e guardate nel chiavistello del portone, potrete ammirare un disegno composto da siepi e arbusti del giardino antistante che incorniciano magistralmente, in un gioco prospettico senza pari, la cupola di S. Pietro.
E, dalla cupola di San Pietro, nota ovunque e in tutto il mondo, passiamo alla cupola che non c'è.
Stiamo parlando della cupola di Sant'Ignazio.
La cupola della chiesa di Sant'Ignazio fu ordinata dal Cardinale Ludovisi.
Tuttavia, durante i lavori, il religioso si rese conto di essere, come si dice oggi, a corto di budget.
Nonostante le gravi difficoltà economiche, però, l'ingegnoso Cardinale decise di far realizzare la sua opera lo stesso.
Per farlo non si servì di mattoni e calcina, ma di pitture e stucchi.
E così, la cupola fu realizzata attraverso un mirabile trompe l'oeil.
Visitando l'interno della chiesa, quindi, l'impressione è di avere una cupola sulla testa, ma la verità è che si tratta di un disegno che inganna lo sguardo.
Bisogna dire la verità, non tutti, passando, se ne accorgono, ma a un attento esame non è difficile intuire l'ingegnoso stratagemma.
Di curiosità in curiosità, ci troviamo in piazza Capranica.
Nella nota piazzetta vicino al Pantheon si trova una colonna ferita.
Un ampio squarcio segna l'antico sostegno.
La fenditura, si dice, sia la traccia di una sciabolata di Orlando.
Sì, proprio lui, il Furioso.
Il quale, si narra, impugnata la mitica spada Durlindana, decise di lasciare il segno del suo leggendario passaggio nella città eterna.
Altrove, esattamente nella chiesa di Santa Maria in Vallicella, riscontriamo fatti ancor più strabilianti.
Cosa ne direste di un dipinto che appare e scompare almeno un giorno alla settimana?
Non meravigliatevi.
Anzi, credeteci, perché così è.
Questa magica epifanica dissolvenza accade al dipinto del maestro Rubens,
Angeli adoranti la madonna Vallicelliana.
Ed è un fatto oramai assodato, nonché un appuntamento per turisti e credenti.
Il quadro, nell'arco di una giornata, scompare per fare posto a un ritratto della Vergine a cui vengono attribuiti poteri miracolosi.
Com'è possibile?
L'invenzione è dello stesso maestro Rubens.
Attraverso un ingegnoso meccanismo da lui stesso ideato, ha consentito e consente al sacrestano della chiesa di sostituire i dipinti esposti mediante un curioso telecomando ante litteram.
Dirigendoci altrove, incontriamo una via molto, molto misteriosa:
Via Piccolomini.
E' nota a tutti grazie a una vista davvero originale.
Dal centro della strada, infatti, si può assistere a uno degli scorci della cupola di San Pietro di maggior impatto.
Qui, la cupola, sembra talmente vicina che taluni sostengono appaia più prossima che se la si ammirasse fra le braccia del colonnato di piazza San Pietro.
Ma c'è di più!
Per un misterioso effetto ottico, infatti, se ci si avvicina alla cupola, questa pare allontanarsi, mentre, se ci si allontana, la cupola pare inspiegabilmente ingrandirsi.
Fenomeno esattamente contrario alle normali leggi prospettiche.
Segreti di Roma...
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Altro antro misterico della città è il quartiere magico per eccellenza.
Un quartiere popolato di fate e folletti che si erge fra le risate e gli sguardi irriverenti di fauni e strane creature.
Il quartiere Coppedè.
Curiosità per curiosità, impossibile non far cenno all'angelo più famoso della città.
A Castel Sant'Angelo, infatti, sede di molte esecuzioni (di cui, fra le ultime, si annovera quella di Beatrice Cenci) governa l'angelo la cui statua ancora oggi possiamo ammirare fra i bastioni.
Si tratta dell'arcangelo Michele che sguaina la sua spada contro la skyline capitolina.
Quella statua è l'effige del 29 agosto 590, data epocale per Roma.
Lì i pochi sopravvissuti alla peste videro stagliarsi nel cielo plumbeo la figura di una luminosa creatura.
Quella creatura era proprio Michele, l'Arcangelo.
Il messaggero di Dio apparve agli occhi del mondo mentre riponeva la sua spada nel fodero e, con tale epifania, segnava l'inizio della fine del contagio.
Un'altra leggenda, forse più romantica della precedente, riguarda la fontana delle tartarughe nel cuore di Roma.
In proposito, si narra che detta fontana fu fatta costruire dal Duca Mattei in una sola notte.
L'intento del Duca non era economico e tantomeno politico, ma sentimentale:
il nobiluomo voleva, infatti, impressionare un suocero un po' complicato e niente ci fa dubitare che non ci sia riuscito...
Fra le misteriche imprese compiute sul suolo romano, non possiamo dimenticare la piramide Cestia, costruita in soli 330 giorni.
Altro episodio curioso riguarda una fontana.
L'unica fontana che si conosca provvista di un... coperchio!
Sì, un coperchio, avete capito bene.
Meglio conosciuta come la zuppiera, la fontana, attualmente, trova ricovero in Corso Vittorio, ma non è sempre stata ubicata lì.
L'opera, infatti, commissionata dal papa Gregorio XV, era destinata a Campo de' Fiori.
I commercianti, vista la fontana, incominciarono a usarla per lavare la frutta e gli ortaggi che venivano venduti nel loro mercato.
Una zotica abitudine che fece inalberare papa Gregorio che ordinò agli scalpellini romani un marmoreo opercolo, guarnendo, di fatto, il monumento di un preventivo coperchio.
Purtroppo (o per fortuna, dipende dai casi), a Roma abitano i romani, i quali non prendono mai niente e nessuno sul serio.
E così, in Campo de' Fiori, ammirando la fontana addobbata in quel modo, il popolo incominciò a chiamarla ZUPPIERA.
Potete immaginare l'ira del Papa, il quale, a quel punto, dispose che il curioso monumento venisse immediatamente spostato in Corso Vittorio.
Altro punto intrigante della città eterna si nasconde in un cortile.
Al civico 48 di via Campo Marzio, infatti, c'è il più vecchio orologio della città.
Nascosto nell'antico cortile, si erge, sovente circondato dall'acqua.
Trattasi di una gigantesca meridiana fatta costruire da Augusto, oggi visibile per appuntamento.
E, seppure la sua esistenza non sia famosissima, è possibile, di tanto in tanto, trovare persino la fila.
Insomma... Roma!
Una città dalle mille chiese e dai mille volti.
Dai mille segreti.
Per ogni angolo, o, forse, sarebbe meglio dire sanpietrino.
Un mistero.
Fra tutti questi ce n'è uno attorno al quale si racconta una storia buffa e curiosa.
Oltre le strade, le cupole, le meridiane, nella chiesa di Santa Maria in Cosmedin c'è anche la faccia più antica del mondo.
E' situata nel prodromo dell'edificio di culto ed è stata murata presso quei luoghi attorno al 1630 per ordine del papa Urbano VIII.
Non molti sanno la storia di questo faccione.
Eppure, se si parla di Roma, il grande e rotondissimo volto, meglio noto come BOCCA DELLA VERITA', ne è una delle icone più diffuse.
La zona, un tempo, veniva indicata come Foro Boario.
Dove si pensa fosse l'antico porto di Roma, cioè Porto Tiberinus, ubicato esattamente là dove adesso sorge l'isola Tiberina.
La storia ci dice che alle origini la faccia fungesse da tombino, probabilmente proprio davanti alla chiesa ove ora è murata.
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Non era una cosa insolita che i Romani usassero simili rappresentazioni per dei comuni tombini.
L'acqua, a Roma, era sacra.
Infatti, il Pantheon romano era pieno di divinità che avevano a che fare con quella che noi oggi definiamo... il petrolio blu.
Il primo, il più importante e celebre, era Giove Ammone.
Molti studi sostengono che la bocca della verità sia il ritratto del dio Giove Ammone.
Legato a questi olimpici fatti, ancora più immerso nel mistero, era il bosco da cui Giove prendeva il cognome.
Il bosco di Ammone, infatti, era un bosco sacro e si narra che al centro di questo vi fosse una fonte magica chiamata acqua del sole.
La particolarità di quest'acqua era che il prezioso liquido blu usciva dalla sorgente con diverse temperature, seguendo, cioè, le ore del giorno.
Al sorgere del sole si poteva percepire un'acqua leggermente tiepida.
Alla mezza, quando l'aria circostante si faceva afosa e infernale, l'acqua della sorgente era gelata.
Al giunger della sera, l'acqua tornava a intiepidirsi.
Infine, allo scoccare della mezzanotte, la temperatura era pressoché bollente.
Questo era il potere di Giove.
E questo era il motivo per cui veniva adorato come Dio supremo.
Ora, Giove, detto anche Pluvio, oltre che essere il capo indiscusso di tutti gli dei, era colui che aveva il potere di far piovere.
In omaggio al Dio, dunque, l'antica Roma era ricoperta di tombini con il suo volto.
L'acqua che lui inviava dal cielo a tutti gli uomini per consentire loro la sopravvivenza confluiva nel sottosuolo attraverso i molti tombini con le sue molte facce dalla bocca semi spalancata.
E i tombini facevano confluire le acque reflue nelle cloache.
Altri sostengono che il volto scolpito nel marmo pavonazzetto, che ha un diametro di 1 metro e 80 centimetri circa e il cui peso, si dice, sia circa di 1300 chilogrammi, fosse di un fauno.
Di una creatura fatata che sapesse predire sorti e futuro, ma soprattutto che sapesse scoprire menzogne e mentitori.
E poi, a Roma, unite le due teorie, come spesso capita, nacque una leggenda...
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Donna Licia si alzò dal letto al suono delle campane.
Era una donna bellissima.
Aveva capelli neri e occhi verdi, verdi.
La sua carnagione pallida avrebbe fatto impazzire qualsiasi imperatore, se non avesse fatto impazzire prima Tarquinio, suo marito, il quale si era affrettato a sposarla prima che altri potessero farsi avanti al suo posto.
Tarquinio era un ricco commerciante di stoffe e, sebbene potesse vantare di aver costruito un impero con la sua attività, non era un uomo felice.
Tarquinio aveva un tarlo e quel tarlo aveva un nome:
Licia.
Sua moglie.
Questo, perché ogni volta che Licia incontrava un uomo erano guai.
Gli uomini impazzivano per lei che, oltre a essere davvero baciata dalla natura, era anche una dama intelligente e piena di fascino.
Dunque, in casa sua, dal servo più misero all'ultimo dei consiglieri, erano tutti ai suoi piedi.
E anche fuori casa, a Roma, si conosceva la bellezza di donna Licia.
Le donne la invidiavano.
Gli uomini avrebbero dato qualsiasi cosa pur di passare una notte con lei e
Tarquinio lo sapeva.
Sapeva anche che Licia era una moglie seria, una donna dedita alla poesia e alle arti, eppure, questa sua dedizione aveva finito con l'insospettirlo.
Il destino, d'altro canto, non lo aiutava, perché a causa del suo lavoro, Tarquinio sovente doveva partire per prendere i contatti con i fornitori, suggellare contratti, acquistare tessuti sempre nuovi e nuovi colori per tingerli.
Lavorava come un pazzo perché qualcosa, in cuor suo, gli diceva che con il trascorrere degli anni, il lusso e l'agio erano le armi migliori per tenersi vicino l'adorata signora.
Negli ultimi viaggi, Tarquinio, l'aveva addirittura fatta spiare, ma il suo grande timore era di essersi affidato a un garzone un poco ottuso e che Licia, donna intelligente e scaltra, potesse farla franca nonostante la spia che aveva alle calcagna.
"Alzati Quirino, le campane ce le stanno a sona' de santa ragione, e io ho un brutto presentimento...", disse Licia avvolgendosi in un mantello verde smeraldo.
Il ragazzo si stiracchiò incurante, era un giovane pittore, bellissimo, ed era anche l'unico uomo alla cui corte Licia non aveva saputo resistere.
"Eddai, Licia, lassame sta' qui ancora qualche minuto...", disse lui implorandola.
"No, te l'ho detto, ho un brutto presentimento.
Per favore...", rispose lei preoccupata.
Quirino non si mosse.
Stava incominciando a diventare geloso.
Cercava ogni modo per metterla alla prova, ma lei non aveva nessuna voglia di cedere ai suoi giochini.
Quirino non doveva mettere a rischio il loro segreto.
E lei non voleva pensare nemmeno lontanamente a ciò che sarebbe potuto succedere se Tarquinio li avesse scoperti.
Mentre Quirino indugiava nel talamo che li aveva testé accolti come amanti, dalla finestra un acuto nitrito anticipò l'arrivo di una carrozza.
Era Tarquinio!
Negli occhi dei due amanti lo spettro della paura.
"Sbrigati, sbrigati!", imprecava Licia con un urlo semi strozzato.
"Se mio marito te trova, te uccide!".
Quirino, da parte sua, era fuori di sé dal terrore.
Aveva sempre dubitato dell'eventualità che Tarquinio li potesse scoprire, perché si riteneva più scaltro e più furbo di lui.
Certo, non avrebbe mai immaginato che l'altro sospettasse a tal punto della moglie, da interrompere un importantissimo viaggio di lavoro per tornare indietro all'improvviso, e coglierla sul fatto.
Nel cortile della casa i cavalli parevano mostrare la stessa inquietudine del loro padrone.
I servi urlavano istericamente perché il ritorno del padrone significava aver pronti una serie confort a cui evidentemente non si erano ancora dedicati.
Licia continuava a implorare Quirino.
Ma Quirino era alla ricerca del suo sandalo destro, non poteva abbandonare la casa lasciando quella prova inconfutabile...
Licia perquisì il letto di sopra, di sotto, a destra e a sinistra e, alla fine, il sandalo saltò fuori.
Ma era tardi.
Troppo tardi.
Tarquinio e alcuni suoi uomini stavano raggiungendo a grandi passi la scala principale.
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La casa di Licia, infatti, era dominata da un'immensa scala a chiocciola fatta di tufo e illuminata da torce sfavillanti.
Questa univa i tre piani dell'abitazione dei due coniugi, che l'avevano progettata pensando di collocare il talamo nuziale all'ultimo piano.
"Per tutti gli dei dell'Olimpo!", esclamò Quirino.
Non aveva pensato di doversi dileguare così precipitosamente, ma ora c'era poco da pensare!
Non restava che una via di fuga:
calarsi dalla magione.
"Giovane, nun me di' che c'hai paura?", lo provocò sarcastica Licia.
Si sa, era una donna molto viziata dal quel punto di vista.
Gli uomini, per lei, si erano dedicati a imprese incredibili pur di attrarre la sua attenzione, e il suo giovane amante non poteva certo essere da meno.
Non ultimo, il di lei marito che proprio ora era tornato dall'aldilà del mondo pur di acchiappare il potenziale amante dell'adorata consorte.
Ad ogni modo, dallo sguardo di Licia Quirino capì che non aveva scampo.
Così, dalla volta ad ogiva che incastonava la finestra del talamo, prese la via dei tetti.
Nel silenzio della notte, Quirino pregava, sperando che la paura di quei momenti cacciasse dalla sua mente un po' di fumosi umori dovuti ai numerosi calici consumati insieme a Licia e al torpore che lasciano i desideri non ancora esauditi.
Quindi, il ragazzo si fece inghiottire da un buio fatto di tegole, mentre Tarquinio irrompeva nella stanza.
"Dov'è ?", tuonò il padrone di casa allontanando la moglie e iniziando a frugare dappertutto.
"Ma cosa?", chiese Licia con l'aria più annoiata che poteva.
"Il tuo amante!
Lo so che c'è.
Avanti, dov'è?"
"A Tarquinio, ma vedi 'n po' d'annattene, co' tutte 'ste manie..."
"Ahò, questa è casa mia!", ribatté Tarquinio inalberandosi.
"E allora?", chiese lei flemmatica.
"E allora ho il diritto di frugare dove voglio!"
"E fruga, allora.
Tiè, a 'sto punto manco faccio rassetta' la stanza, visto che la devi mette sotto sopra", seguitò lei, piccatissima.
Poi fece un cenno alle sue ancelle che erano entrate col marito.
La donna, godendosi lo sgomento generale, era quasi divertita.
Le ancelle si guardarono intorno curiose.
Eppure, avevano sentito parlare la padrona con un uomo...
Tarquinio, stroncato dalla furia, si accasciò sul letto.
"Fai prima a dimme n'do sta 'sto villano".
"Oh, ma te sei fissato!", rispose Licia pettinandosi i lunghi capelli neri.
"E va beh.
Allora, sai che te dico Licia mia?
Visto che nun collabori, io chiedo 'na verifica".
"'Na verifica?".
"Voglio che me giuri la verità davanti a Giove Pluvio!"
"Ah, pe' così poco?
'N d'annamo?
Ar tempio o dove?", continuò lei.
"No, no cara mia.
Stavorta me lo giuri alla bocca della verità".
Licia ebbe un fremito.
Tarquinio le dava le spalle e, dunque, non si accorse che la moglie impallidiva.
La bocca della verità non ammetteva menzogne:
ad ogni bugiardo veniva mozzata la mano.
"Je voglio proprio chiede si t'ha abbracciato quarcun artro...", disse Tarquinio andandosene.
A Roma c'è chi diceva che dietro la bocca ci fosse un allievo di Mastro Titta, il boia.
Altri, scettici, domandavano:
"Ma voi, avete mai conosciuto un giustiziato?"
Però, a parte tutto, che infilare la mano nella bocca di Giove non fosse salutare, lo sostenevano un po' tutti.
Le parole di Tarquinio le risuonavano nella testa.
Come avrebbe fatto?
Non poteva infilare la sua mano nella bocca, non poteva giurare che nessuno l'aveva abbracciata!
Quirino era stato lì, il letto era ancora caldo e le sue risate da ragazzo riecheggiavano per l'etere.
Alla mezzanotte, Licia impugnò un candelabro e incominciò a muoverlo su e giù dalla finestra.
Normalmente, era il segnale per Quirino che i due si potevano vedere.
Il giovane, in attesa, in un istante apparve sulla grondaia.
"Nun t'avvicina'", gli sussurrò Licia.
"E come faccio a baciarti da così lontano?", chiese lui allegro.
"Nun me devi bacia', me devi ascolta' e pure muto e rassegnato".
"Va beh... e allora dimme".
Licia, bisbigliando nel buio, spiegò per lungo e per largo a Quirino la situazione, dicendogli anche cosa avrebbe dovuto fare il giorno appresso.
Quirino ascoltò in silenzio.
Quindi, scomparve nel buio come era venuto.
Il giorno dopo, un chiassoso rumore di tamburi esplose nel cortile.
Licia era in camera sua, si era messa un bel vestito verde smeraldo e aveva raccolto il lunghi capelli in uno chignon.
Era indiscutibilmente bellissima.
Tarquinio spalancò la porta e, alludendo ai tamburi, le chiese:
"Te piaceno?"
"Di 'n po'... ma c'è bisogno de tutta 'sta caciara?", lo rimbrottò lei polemica
"So' tamburi Saraceni, 'na vera rarità", rispose lui orgogliosissimo.
Poi aggiunse:
"Ci accompagneranno fino a destinazione.
Poi vedemo".
"Vedemo cosa Tarqui'?
L'unica cosa che vedo è che nun te fidi più de me!"
Tarquinio ebbe un gesto di stizza.
"Donna, forse nun l'hai capito, ma qui le malelingue hanno un unico argomento e quell'argomento sei tu.
Quindi faccio caciara perché voglio che lo sappiano tutti.
Vieni a dimostra' ar popolo de Roma che nun sei fedifraga e che ieri fra le tue braccia c'era er vuoto e non un altro uomo.
Nnamo!"
Tarquinio prese per un braccio la moglie riluttante e la trascinò con sé verso il cortile.
Il popolo pareva non aspettasse altro che vedere Licia in difficoltà.
Gli uomini che l'avevano desiderata fino al giorno prima, ora sembravano i suoi primi accusatori, mentre le donne che, sotto sotto, l'avevano sempre invidiata, non aspettavano altro che di vederla punita.
La processione partita dal cortile attraversò i vicoli di Roma e, ad ogni piazzetta, qualcuno si aggiungeva per la via.
I tamburi attiravano orde di curiosi e la gente non mancava di dire la sua.
"Embè, ahò, se l'è voluta la sora Licia!
Co' tutti quei gingilli fra li capelli, co tutte quelle stoffe...", schiamazzava una matrona romana facendosi largo fra la folla per cercare di vedere da vicino la malcapitata.
"Ma poi mica è così bella come dicheno", aggiungeva un'amica allungando il collo.
"Me pare d'averla vista ar mercato senza quei trucchi che la fanno sembrà la moglie di un Moro e n'era gnente de che!"
Licia teneva la testa bassa, cercava di mantenere la calma, ma avrebbe voluto lapidarli tutti, quella masnada d'infidi.
Arrivata al pronao della chiesa dove giaceva l'oracolo della verità, i tamburi smisero di rullare.
Licia si guardò intorno spaventata.
Tarquinio la fissava con aria inquisitoria e tronfia, certo di avere ragione e di poterla sbugiardare davanti a tutti.
All'improvviso, si udirono degli urli.
Un ragazzo, avvolto da stracci sporchi che pareva un tarantolato, si gettò in mezzo alla folla urlando frasi senza senso.
"Pazzo?
E chi ha detto che so' pazzo?
Io?
Achille Quirino?
Ero er mejo peregrinus de voantri.
Optimus jus me, disse l'imperatore a Caracalla".
Poi, barcollando qui e lì, si avvicinò a Licia.
"Anvedi che imperatrice...!"
"Ma che imperatrice!
Tu sei pazzo!", si mise di mezzo Tarquinio, infastidito.
Ma il ragazzo, camminando come una scimmia, gli si fece sotto minaccioso.
"A console, io nun so' pazzo, c'ho la damnatio memoriae come Geta ner senso che nun me ricordo chi so'.
Ma lei la riconosco, è l'imperatrice.
Ergo, levate, che la devo onora'!"
Tarquinio mise mano alla spada, ma qualcuno lo fermò.
Era suo fratello Prisco che gli sussurrò:
"Lascia fare, non lo vedi che è pazzo?"
"Embè?", chiese Tarquinio nervoso.
"Embè fai peggio!
Non lo sai che i pazzi nun se contraddicheno..."
"Va beh", accettò Tarquinio riluttante.
E si fece da parte, affinché il giovane pazzo potesse abbracciare sua moglie Licia, credendola l'imperatrice.
"Adesso levete!", ordinò infine Tarquinio.
"Me levo, me levo... sta' sereno che nun indugio", rispose il giovane folle.
Così, Tarquinio condusse Licia davanti alla bocca della verità e le disse:
"E mo giura, si c'hai coraggio!"
Licia fece spallucce al coniuge e, con estremo coraggio, levò la mano per infilarla nella bocca dell'oracolo.
Ma prima di compiete il rito aggiunse:
"Giuro che nun abbracciai nessun altro a parte mi' marito e quello scocciato pazzo de poco fa."
Il popolo fece "Oooohhhh!"
Quindi, la donna infilò la mano, attese qualche istante, poi ritirò la mano e disse a suo marito:
"Tiè, nun m'ha morso, manco 'n pochetto.
Questo vor dì che tu' moglie è fedele e tu un malfidato.
Quindi, levete, aria, sciò!"
Licia se ne ritornò a casa soddisfatta e senza macchia.
Aveva detto la verità.
Nella sua vita aveva tenuto fra le braccia due uomini, Tarquinio e Quirino.
E la bocca della verità, a tanta vera furbizia, non aveva avuto nulla da eccepire.
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