Toc toc...
"Maestro, siete mica 'n casa?"
Da un frusciar di carte il maestro emerse come la collina bianca vicino alla bottega del mi' babbo.
"Oh, bella, il Caballa!
E com'è che transitate pe' 'ste vie?", chiese il maestro curioso.
"Lo sapete, è il babbo.
L'è curioso delle trovate vostre.
Cosicché, quando gli gira mi dice:
Oh, Caballa, recati veloce dal mastro Da Vinci, che quello l'è tutto un tramenio.
Magari gli è esploso un genio e noi qui arriviamo dopo i fochi de San Giovanni."
"Caro Caballa el tu' babbo, invece, gli è tutta 'na fantasia e ti parla a cinci sciolto..."
"Quindi, deduco, niente trovate stamane?"
"Niente... proprio niente, sei venuto pe' nulla."
"Uh, ma io c'ho un'uggia oggi che mi si porta.
Dunque, camminare mi ha fatto bene", dissi girando i tacchi.
"Ah si?
Allora sai che si fa?", propose lui, sempre operativo.
"Che si fa?", chiesi baldanzoso come un capretto...
"Tu sai leggere Caballa, sì?", chiese il maestro seriosissimo.
"Depende.
Et volte che sì et volte che no...", risposi storcendo il muso.
Sicché il maestro alzò le sopracciglia.
"E arguisco che oggi è la volta di et no, justo?"
"Po' esse'...", mormorai sospettoso.
"Po' esse anche che la tu' essenza l'è quella del birbone, eh, Caballa?", continuò lui alludendo.
"Sì.
Anche questo po' esse'", ammisi onestamente.
Che ragione c'era di mentirgli?
Con tutto quel genio che c'aveva in capo, prima o poi l'avrebbe intuito.
"Ma nun t'avevo insegnato l'arti del trivio, anni fa?", chiese grattandosi la parrucca.
"Moltissimi, moltissimi anni fa, maestro.
Potremmo dire agli albori."
"E perciocché, considerati gli albori, TU non ricordi come si legge, né come si verga su carta?"
"No pe' vantazione, ma no!"
"Anche se prendo il righello, tu lo stesso non rammenti?", disse sollevando un righello di sambuco all'altezza delle mi' natiche.
"Se prendete il righello, appena, appena, ma qualcosina mi sovviene... tipo la A che l'è come una casetta e la O che pare tipo un bucho."
Fece un gesto carico di scappellotti ma poi ci ripensò.
"Sei lesto ad evitar il bastone, eh?
Te tu sei proprio un bischero et dunque, ora, per acculturati, scriverai per me in bella copia cose mai sentite.
Sicché poi le potrai riferi' al tu' babbo che strabuzzerà."
"Seee... il mi' babbo, bel soggetto quello!
Sempre idee splendenti, tipo questa de veni' qua."
Sbuffando, presi in mano la piuma che già c'avevo le dita belle che sudice.
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"Il vostro pennino perde, Mastro Lionardo.
Ecco qui che c'ho tutte le dita inzaccherate."
"Grullo, il sapere non sporca mai... quelle macule sono le lettere impazienti di uscire dalle tu' dita.
Toh, guarda qua, io vedo un verbo sul tu' indice e un epiteto sul tu' pollice."
Oh, io 'un vedevo proprio un bel nulla, ma si lo diceva lui, andava creduto.
Certo, matto era matto, lo si sapeva.
Co' tutto quel genio da portare in testa... finisce che la testa poi s'ammala.
Così m'acconciai un bel sorriso da guancia a guancia e chiesi, disperato, rimirando il foglio vuoto e immacolato:
"A chi si scrive dunque?"
"A sua eccellenza Ludovico Sforza", rispose lui pomposo.
"E siete capace di parlar regale?"
"Semplicemente, lo fo", disse lui cheto.
"Così poi mi dici se ti garba quel che dico, eh grullo?"
"A sua eccellenza?"
"Eh, a sua eccellenza."
"Io...!?"
"Eh, tu.
Perché, 'n ti ritieni d'esse' capace di dare un parere?
Pe' la cronaca:
il parere non si scrive, lo dai e basta se ti garba o anche no, che dici?
Ce la puoi fare?"
"Dico, dico... che io, maestro, già mi sento un palle d'oro se voi volete un parere da un bischero come me!", osservai, sbracandomi sulla su' panca soddisfatto.
E forse m'allargai troppo.
Difatti, poco dopo, mentre egli incominciò a schiarire la gola, m'arrivò un calcio d'improvviso.
"Oh, Caballa, però rizzati, icché tu fai costì a strasciconi?!"
"Oh, scusate, mi predisponevo all'ascolto perbacco!", dissi massaggiandomi il didietro per il poderoso calcio.
"Così sbracato?", mi rintuzzò lui, furioso.
"Beh, poi mi sarei rizzato pe' la scrittura...", tentai di recuperare.
"Strasciconi così te tu t'addormenti e buona notte ai sonatori, caro mio.
Composto!
Se scrivi, te tu stai composto e in bella riga.
Maremma infingarda!
Oh, è come da' le perle a li maiali!"
E vabbè che l'era 'n genio, ma c'aveva un caratteraccio peggio del caprone del padre di Baciccia, ecco che c'aveva.
Poi mi risquadrò di sottecchi e disse:
"Sicché io ora 'ncomincio e si hai dubbi, mi freni."
"E... di che scriviamo?"
chiesi.
Non rispose.
Che burbero che era!
Quindi, Maestro Lionardo prese le su' tante carte e, senza un minimo di prologo, incominciò la lettura.
E siccome non mi disse proprio nulla, cercai di sbirciare un po' del contenuto, ma era tutto scritto co' la mancina a rovescio e di fretta e di furia, tanto che quei cartocci li capiva solo lui.
Bah, pensai fra me e me, meglio non cagare ipotesi di fronte a cotanta ingegneria.
Sicché, il Maestro Da Vinci incominciò la dettatura e subito dopo diede il comincio anche al mio martirio.
Come v'ho detto, si scriveva del su' geniaccio a sua eccellenza Sforza Ludovico.
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"Havendo, Signor mio Illustrissimo, visto et considerato horamai ad sufficientia le prove di tutti quelli che si reputano maestri et compositori de instrumenti bellici, et che le invenzione et operazione di dicti instrumenti non sono niente alieni dal comune usa, mi exforzerò non derogando a nessuno altro, farmi intender da Vostra Excellentia, aprendo a quella li secreti mei, et appresso offerendoli ad omni suo piacimento in tempi opportuni, operare cum effecto circa tutte quelle cose che sub brevità in parte saranno qui notate, et anchora in molte più secondo le occurrentie, de' diversi casi etcetera."
"Sicché, gli volete proprio rivelare ogni vostro secreto?
Instrumenti et opere?", chiesi turbato al Maestro.
"Ogni caccholina", rispose lui convinto.
Poscia, mi fece 'l gesto di continuare.
"Ho modi de ponti legerissimi et forti, et atti a portare facilissimamente, et cum quelli seguire, e alcuna volta fuggire li inimici, et altri securi et inoffensivi da foco et battaglia, facili comodi da levare et ponere.
Et modi de arder et disfare quelli de l'inimico..."
"Maestro, lasciate che ve lo dica... voi state un tantino esagerando!", sbottai incredulo.
"E sarebbe?
Oh, cos'è che vi turba tanto?", mi chiese indifferente.
"Beh... li ponti... matematicamente 'un reggono!"
"Ah no?", chiese lui con aria di sfida.
"Eh, no, poiché si son leggerissimi nun possono esser forti, si son ponti, e pure forti, come si possono levare et ponere?"
"Oh, fanciullo, un po' di fantasia!
Si pongono e si levano magari con le rote.
Che ne pensi?"
"Oh, Ludovico 'n ci crederà mai, garantito!"
"Ci crederà, ci crederà..."
"Maestro, lo chiamano il Moro di soprannome, mica il Nasca o il Caballa!", insistetti, per cercare di farlo ragionare.
"E a me mi chiamano il genio.
Et dunque, che dici?
Quattro rote abbastano per levare et ponere, andiamo avanti."
Ripresi la penna e attesi.
Egli si accarezzò la barba accingendosi a dettare.
"So in la obsidione de una terra toglier via l'acqua de' fossi et fare infiniti ponti et altri instrumenti pertinenti ad dicta expedizione."
A quel punto explosi.
"Toglier via l'acqua da' fossi?
Maestro, nemmeno Dio arriverebbe a tanto!"
"A no?"
"No!"
"E secondo te, Mosè che cosa vide quando l'Onnipotente separò li mari?!", esclamò furioso.
"Vide... che vide?
Li mari separati!", mi precipitai a rispondere.
Ma lui, urlante, non mi diede tregua.
"E come lo fece st'artifizio?!"
Sprizzava furia e foco da entrambi l'occhi.
"Co...co...co li diti?", chiesi in un soffio.
"No, stupido Caballa, co' li attrezzi!", sentenziò cavernoso.
"...Co...co li attrezzi?!", ripetei da asino.
"Li attrezzi di Dio, certo!
E magari potessi avere li bozzetti sua!", sospirò desideroso.
Quindi, esortandomi, urlò:
"Scrivi Caballa, scrivi e dannazione a tutto 'l tempo che mi fai perdere!!!"
Indi, riprese a dettare.
"Ho ancora modi de bombarde commodissime et facili ad portare, et cum quelle buttare minuti saxi a similitudine di tempesta, et cume el fumo di quella dando grande spavento a l'inimico cum grave suo danno et confusione."
Saltai su come un grillo.
"Perché, secondo voi, noi pure da questa parte della barricata vedendo tutto 'sto macello, saxi, cocci, fumo e similitudine di tempesta, non ricaveremo danno et confusione?
La mi' mamma, per esempio, le si seccherebbe 'l core!"
"La tu' mamma non è l'inimico", mi disse stizzito.
"No.
Ma 'l core gli si seccherebbe lo stesso, è la mi' mamma, ne saprò qualcosa!"
"La tu' mamma, pe' lo corso della battaglia, starebbe a casa sua Caballa, ispecie non essendo soldato, ma soprattutto non essendo homo!"
"Ma è la diva mia, e si voi fate tanta buriana, quella finisce coll'ave' pavura."
"St'argomento è senza sugo!", rispose sbuffando lungamente.
"E pe' la Maremma, come prendete subito d'aceto, Maestro!"
Lui non mi rispose e mi fece un gestaccio, proseguendo a dettare.
"Et quando accadesse essere in mare, ho modi de molti instrumenti actissimi da offender et defender, et navili che faranno resistenzia al trarre de omni grossissima bombarda, et polver et fumi.
Ho modi per cave et vie secrete et distorte, facte senza alcuno strepito per venire ad uno certo et disegnato loco, anchora che bisogniasse passare sotto fossi o alcuno fiume."
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"Già mi pare d'affogare", osservai con un certo spasmo ai polmoni.
"Babbeo!
E cosa ci starebbero a fare i navili?"
"La fate facile voi, ma dopo tanta resistentia uno potrebbe anche finire sotto i navili e sparire tra li flutti."
"Caballa, il citrullo, sì, sparirebbe!
Non l'homo d'arme ben istruito a defender!", mi zittì il maestro.
"Belli quelli!
In specie nello corpore", berciai offeso.
"L'homo d'arme non deve esser bello, ma di valore."
"Ne ho conosciuto uno di recente.
C'aveva un dente ogni quarto d'ora, certo nun poteva battaglia' a morsi", ribattei velenoso.
"Taci Caballa.
O, come t'ho fatto, ti disfo!
Chiappa la penna e striscia il cartoccio e, tosto, scrivi!"
Tornando a dettare, il Maestro si recò verso l'uscio e, aprendo, guardò fuori, ma nisba.
Poi si sentì come un minuzioso grattugiare e allora il Maestro puntò una finestra, l'aperse e sbirciò de fori nuovamente.
"Farò carri coperti securi et inoffensibili, e quali intrando intra li inimica cum sue artiglierie, non è sì grande multitudine di gente d'arme che non rompessino, et dietro a questi poteranno sequire fanterie assai, illesi et senza alcuno impedimento."
"Im-pe-di-men-to", ripeto segnando.
Po' egli s'ammutolì e vidi che tirava fuori dalla tasca dei semini.
Allungò una mano e, dalla finestra, un furetto si tese per cibarsene.
Mi allungai io pure per guardare e il Maestro mi fece l'occhiacci prima di proseguire.
"Occurrendo di bisogno farò bombarde, mortari et passavolanti di bellissime et utile forme, fori del comune uso."
Quindi si fermò e, voltandosi verso di me, disse:
"Bello, vero?"
Guardavo il furetto curioso e colpito.
Po' feci cenno di sì col capo.
"Lo ritrarrò sul cartoccio ruvido.
Egli lo sa e nel frattempo c'attende, si fa conoscere e rimirare.
Riprendiamo, adesso."
Sbuffai guardando le mi' dita sozze e piene di macule che dovevano essere le lettere pronte a uscire, a rigor di logica, anche se a me, detto fra noi, 'un me pareva.
"Dove mancassi la operatione de le bombarde, componerò briccole, manghani, trabuchi et altri instrumenti di mirabile efficacia et fora de l'usato, et insomma secondo la varieta de' casi componerò varie et infinite cose da offender et difender."
"Beh, avrete da componere per secoli.
Non vi pare d'aver esagerato?"
"Che dici?"
"'Un vorremmo scancellar qualche cosina?
Che so, uno istrumento qui e là?"
"Oh, ciuccio, ma 'un lo conosci il detto?"
"Et depende.
Quale?", domandai 'ncuriosito.
"Chi 'un piange, 'un puppa."
"Quindi vergo?"
"Verga, verga, 'un ti fermare!"
Sicché, seguitò a berciare le sue visioni immaginifiche.
"In tempo di pace credo satisfare benissimo ad paragone de omni altro in architectura, in compositione de aedificii et publici et privati, et in conduceraqua da uno loco ad uno altro acto ad offender et difender.
Per sculptura di marmore, di bronzo et di terra; similiter in picturacia che si possa fare ad paragone de omni altro, et sia chi vole."
"Ho male alli diti."
"Scrivi!
Le tu' dita so' giovani, niente lamenti."
"Ah, no, eh?
L'avete detto voi:
chi 'un piange, 'un puppa!"
Ma il genio non aveva pietà delli diti mii.
"Anchora si poterà dare opera al cavallo di bronzo che sara gloria immortale et aeterno honore de la felice memoria del Signor Vostro patre et de la inclyta casa Sforzesca."
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E poi, quasi declamando a urli:
"Et se alchuna de le sopradicte cose a alchuno paressino impossibile et infactibile me offero paratissimo ad farne esperimento in el parco vostro o in qual loco piacerà a Vostra Excellentia, ad la quale humilmente quanta più posso me recomando etcetera, etcetera."
"Pure!"
"Pure cosa?"
"Volete farne esperimento?
Di tutta codesta roba?
Non bastano le dritte che gli avete dato?"
"Bada, grullo, codeste non sono dritte ma facti!"
"Facti?
Maestro, io sì, è vero, son grullo, arrivo a dire citrullo se vi fa cosa gradita, ma dove li avreste tutti 'sti ponti e saxi, di grazia?
E le bombarde e i passavolanti e, insomma, tutti gli instrumenti che avete elencati in loco?
Nel sottoscala, forse?
Perché io non l'ho veduti proprio.
Insomma, ho capito che scrivete per farvi eccellente, ma a parer mio avete bello che esagerato.
Volevate un mio parere?
Beh, è questo il mio parere che giace sulla punta della mi' lingua, senza macula sgradita.
Non ci crederà nessuno a tutte codeste fantastiche prodezze!"
"Ludovico sì, ne son quasi certo!", rispose seccatissimo.
"Sempre che si rechi in cerca degli 'sputafoco' nel sottoscala", osservai ironico, convinto oramai di parlare con un andato di mente.
"Non vi sono sputafoco fra i miei ragionati instrumenti, i quali, per tu' norma e regola, sono tutti quivi parcheggiati!"
"Nella parrucca?!", sbottai incredulo e divertito, poiché egli s'indicava la testa.
"Nel mi' cervello, gran pezzo di babbaleo!"
Tacemmo entrambi per un attimo.
"Forse s'è fatto tardi", dissi, quindi, offeso.
"Sì, va', va', che 'l tu' babbo ti reclama di certo... puzzone zotico!"
Non vidi più mastro Lionardo e me ne dispiacque.
Ma continuai a pensare che, oltre che genio, era davvero un po' suonato.
Oh!
Invece, cari posteri, aveva ragione lui e io ero lo stupido babbaleo.
Eh, sì... mi sbagliavo proprio.
Perché, naturalmente, la su' arte fu ben accolta da Ludovico Sforza.
Anzi, per sua eccellenza il Maestro lavorò a lungo in Mediolanum e senza inviarmi mai nemmeno una letterina disegnata.
E che modi, dico io!
In fondo si poteva industriare ed exspedirmi qualche cartoccio vinciano.
In fondo, anche se per poco, ero stato il suo piccolo scrivano e, per giunta, pure fiorentino!
Beh, altri mondi, altre storie del divenire...
***
A Milano, in effetti, Leonardo fece molte cose.
Perfezionò i Navigli e dipinse per il mondo quello che noi oggi conosciamo come Cenacolo Vinciano.
Tuttavia, l'opera più curiosa, misterica e, oseremmo dire, più moderna che Leonardo concepì sotto gli auspici di Ludovico il Moro, a dispetto dei carri armati e delle bombarde rappresentate nella sua missiva, fu, a nostro modesto avviso, il dipinto che oggi si conosce con il nome de La dama con l'ermellino.
Il dipinto, uno dei pochi di Leonardo ad appartenere a una collezione privata, è stato realizzato dal Maestro fra il 1488 e il 1490.
Trattasi di una tela alta cinquantaquattro centimetri per trentanove che attualmente si trova a Cracovia, al museo Czartoryski, dove fu riportata in seguito a numerose razzie perpetuate durante l'ultima guerra.
Dal 2012 il dipinto è temporaneamente esposto al castello di Wawel.
Il quadro rappresenta una bellissima ragazza che tiene fra le braccia un candido ermellino.
L'immagine è potente perché Leonardo, ancora una volta, scardina i canoni del tempo e, anziché riprodurre l'immagine della donna come avrebbero richiesto gli schemi e le mode coevi, cioè il mezzobusto posto in posizione frontale, sceglie per la fanciulla una posizione irrituale.
Ossia un mezzo busto in torsione, quasi in movimento.
La donna del quadro, infatti, dà proprio l'impressione di essersi voltata all'improvviso, mantenendo la posizione del busto frontale e il viso rivolto verso la sua sinistra (destra per l'osservatore).
Dato, quest'ultimo, assolutamente rivoluzionario.
Medesima postura è assunta dall'ermellino che sembra essere attratto dalla stessa scena che ha improvvisamente rapito l'attenzione della padrona.
Gli elementi di grandezza di questo prezioso dipinto sono diversi.
Per cominciare, la fanciulla si dice fosse Cecilia Gallerani, amante di Ludovico il Moro.
Alcuni ritengono persino che l'identità della ragazza fosse suggerita dalla presenza dell'ermellino, il cui nome, in greco, ha assonanza con il cognome della donna.
Ma è più facile pensare che l'animale rappresenti Ludovico che, dal 1488, diviene membro del prestigioso Ordine dell'Ermellino, corporazione d'eccellenza dalle origini bretoni.
A tal proposito, alcune tecniche di recente acquisizione avrebbero rivelato che, sulla tela, in origine, gli ermellini fossero due.
Tornando al dipinto, è innegabile che siamo di fronte a un donna bellissima, dall'incarnato pallido e immacolato.
Un viso perfetto, regolare, incastonato in un leggerissimo copricapo chiuso fra due lacci sotto il mento che le copre interamente i capelli e sottolinea la perfetta sagoma del viso.
Un ovale.
Dunque, a causa del copricapo, non sappiamo se ella è bionda o bruna e nulla di lei ce lo dice, ma non importa.
Si potrebbe ipotizzare castana, ma da cosa lo si deduce?
Forse dal copricapo medesimo?
A guisa di cuffia di un caldo color castagna, il cappello è di un marrone intenso e contribuisce a conferire pallore all'incarnato.
Seppure, le sopracciglia tenui, appena accennate, lascerebbero presagire una capigliatura chiara dai riflessi dorati.
Frugando fra il fondo scuro e il collo sinuoso, ecco però che s'intuisce una ciocca di capelli raccolta in un esile filo.
La ciocca ha un colore indeciso, forse un castano tanè o un più classico e nobile biondo cenere.
Scendendo più in basso, le fa da colletto un filo di perle, anch'esse scure, che sottolineano un collo lungo e sinuoso.
Una scollatura geometrica le incastona il decolleté in modo garbato ed elegante.
L'abito è azzurro con piccoli fiocchetti che le uniscono le maniche da cui spicca una fodera rosso cupo.
La mano destra (sinistra per l'osservatore) accarezza l'ermellino.
Il gesto è aristocratico.
Le dita lunghe e affusolate si mescolano perfettamente al manto regale dell'animale che è dotato di una sua forza selvatica, rivelata, in particolar modo, dalla zampa che fa leva sul braccio della ragazza e che ci mostra minute ma poderose fasce muscolari.
Fibre che ci fanno intuire la storia di un animale domestico che, seppure cresciuto in cattività, è stato molto ben allevato e allenato.
In merito qualcuno ha affermato che l'ermellino assomigli moltissimo a un furetto, animale , quest'ultimo, che Leonardo aveva lungamente studiato.
Dicono gli storici che la fanciulla potrebbe essere stata colta dal Maestro nell'attimo in cui, nella stanza, faceva ingresso il suo amante.
Ludovico, appunto.
L'espressione della fanciulla, in effetti, è lieve.
Ella mostra un sorriso appena accennato che ricorda vagamente quello della Gioconda.
Pur tuttavia, a nostro parere, lo sguardo non è del tutto innocente, ma lascia intendere una più adulta consapevolezza.
Intrigante specchio della ragazza è, anche qui, l'espressione dell'animale che ella tiene in grembo.
Di fatto, dal muso del mammifero possiamo cogliere, in termini più istintivi, analoghi sentimenti di stupore ma non di paura.
Ad ogni modo, la grandezza di quest'opera è l'esplosione di modernità che traspare, coniugata a un senso estetico senza pari.
Come sempre, il genio anticipa il tempo.
Rompe gli schemi.
Pensa altrimenti.
Guarda all'opposto di dove tutti guardano.
Una forza contraria e continua.
Una forza inevitabile e imprevista.
Perché la forza evocatrice rivelata da questo dipinto è nel fatto che Leonardo, in sostanza, ci rappresenta lo scatto di un fotogramma.
Un'istantanea.
Un concetto arditissimo per l'epoca e decisamente avanti anni luce.
Egli sceglie di rappresentare l'attimo in cui lei coglie l'arrivo di lui.
Precorrendo così meravigliosamente (e suo malgrado) l'invenzione futura della settima arte, il cinema.
Sì, il cinema, di cui Leonardo è stato sicuramente un grande, grandissimo precursore, quanto meno per la creazione di una futura grammatica dell'inquadratura e dei suoi conseguenti e intrinseci significati simbolici.
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