Henry era ancora pieno di riconoscenza verso sua madre quando entrò nei fumosi ambienti dell'Ely.
Finalmente aveva ottenuto il permesso di allestire uno studio proprio lì, nel cuore degli orribili bassifondi, come Maman amava definire Montmartre.
Giunto nell'atrio, ebbe la sensazione che all'interno vi fosse poca aria e che la temperatura fosse montata di parecchi gradi.
Si tolse la tuba e frugò invano nella tasca in cerca di un foulard per detergersi il sudore.
Poi si guardò intorno e decise che anche il polsino della camicia, ancorché candido e inamidato, poteva andare alla perfezione.
In quel posto conosceva tutti e non conosceva nessuno.
Insomma, conosceva La Goulue, era per lei che era lì e questo era tutto.
Avevano fatto amicizia da subito, il pittore e La Goulue, il giorno in cui lui, ansioso di vedere il suo nuovo mondo, era arrivato con tanto anticipo che l'aveva trovato deserto.
Lei era là, sola, e volteggiava sulle tavole di legno brunito del palcoscenico ricoperta di sudore dalla testa ai piedi.
Aveva piroettato in senso orario con tale grazia, equilibrio e forza che Henry pensava avesse guadagnato un paio di minuti rispetto al mondo e, se il cielo non glieli avesse assegnati, beh, sarebbe stata un'ingiustizia, perché le sarebbero spettati di diritto!
A ogni modo, era rimasto lì a guardare e non si era nemmeno seduto.
Oh, mon Dieu, quanto gli piaceva quel posto!
E, ancor di più, quanto gli piaceva quella donna che ne faceva parte!
Al termine della musica aveva applaudito così forte che le mani gli avevano bruciato per circa tre minuti...
Lei rise nel vederlo così, in piedi, entusiasta e madido di sudore senza neppure aver danzato.
"Quando comincia lo spettacolo?", aveva chiesto fuori di sé, torturandosi la barba.
"Dipende dalla musica.
Tutto dipende dalla musica.
E' lei che deve scorrere fra le gambe, ma siete terribilmente in anticipo o siete nuovo?
Qui nessuno si affaccia prima delle dieci, Monsieur...?"
"Il mio nome è Henry", si era presentato, pronto a baciarle la mano, ma lei aveva alzato le braccia per sciogliere il suo chignon e non gli aveva prestato attenzione.
"Mi chiamo Louise, ma tutti mi chiamano La Goulue."
Poi, ridendo, aveva aggiunto: "Ma per favore non chiedetemi di cosa perché non ve lo dirò..."
Quelle parole misero il fuoco sul viso di Henry.
Non sempre le parole hanno un senso, ma fa sempre tanto senso, ai sensi, come uno le dice.
E lei le sapeva dire come nessun'altra al mondo.
Fu quell'attimo a segnarlo per la vita.
Una risata che vanificò un'esistenza di sussurri e pudori, di anni passati a imparare contegno e limiti.
Rinunce e complimenti, cerimonie e pavidità.
Il suo mondo, dove la timidezza era un nécessaire per qualsivoglia ingresso nei quartieri patrizi degli adulti, si era sgretolato in quella bocca.
Era così.
Tutto di quella donna era fortemente grossier e tutto di lei lo attraeva senza condizioni in un modo prepotente che, alla fine, si sarebbe potuto definire straziante.
Vraiment!
Quella sera Louise avrebbe potuto chiedergli l'anima e lui gliel'avrebbe venduta.
Macché venduta, regalata!
Aveva un viso lungo e polpacci floridi da ballerina, labbra carnose e denti con le fessure.
Aveva le mani forse troppo corte, ma che muoveva con affettazione conturbante.
Aveva un naso troppo grande per il suo viso e gli occhi chiari, piccoli e vivaci.
Gli sguardi, poi, erano quelli di chi dà grande importanza ai dettagli, perché è nei dettagli che si nascondono le occasioni.
E lui, con i suoi vestiti cuciti dall'atelier di Maman, la barba rarefatta e le gambe imperfette, poteva essere l'attesa chance.
Sì, insomma, se lui l'avesse corteggiata, lei certo non avrebbe badato all'aspetto.
L'avrebbe amato e basta, magari rubando dieci minuti a un'ora.
In cuor suo, se l'era ripromesso, il tempo era l'unica cosa che si sentiva di rubare a uno storpio.
Certo, se poi lui avesse apprezzato...
Beh, non avrebbe rifiutato i suoi regali, anzi, a occhio e croce - pensava - se li sarebbe lungamente meritati.
Di una cosa La Goulue era certa, un uomo con quell'aspetto doveva avere molto amore arretrato e tanta voglia di consumarlo tutto.
E allora perché farselo scappare?
Quel signore poteva rappresentare il suo riscatto, forse avrebbe potuto elevarla socialmente.
Oppure, alla peggio, le avrebbe permesso di fare finta.
Henry, da parte sua, aveva una voce dentro che non sempre rimaneva in silenzio.
Una bestia che lo conosceva profondamente e che per criticarlo aveva l'abitudine di guardarlo cinicamente dal di fuori...
Solo di recente, però, cioè da quando aveva incominciato a frequentare Montmartre, un mondo fatto di case di piacere tra Rue d'Amboise e le Rue de Moulins, si era accorto che quell'anima critica che si esprimeva dentro di lui aveva la voce di sua madre.
Ma ormai il vaso si era rotto per sempre e il desiderio aveva raggiunto ogni angolo del suo corpo.
Quella furia nuova, a lui sconosciuta, di cui non poteva fare a meno.
Quella donna lo faceva impazzire!
Quella donna, che non aveva nulla in comune con il suo mondo, lo teneva appeso alla vita come mai gli era capitato prima.
La bestia, dalla sua, non smetteva di parlare e gli sussurrava crudelmente:
"Lo sai cosa direbbe tua madre della sua bocca, vero, mon petit coeur?
E quella risata, Henry!
Un'autentica gallina.
Possibile che possano colpirti dettagli tanto ordinari e raggiungerti così, ehm... ottusamente in basso, chèri?
Pensa alla tua famiglia...
qualcuno ti vedrà.
Lo verranno a sapere.
Lo racconteranno a tuo padre."
Ma quella era la bestia, la sua bestia, a cui lui aveva dichiarato guerra molto tempo prima.
"Posso... posso stare...?", aveva chiesto con una vena disperata, rotta dall'eccitazione, aggiungendo poi sommessamente "...qui?", mentre Louise incominciava a spalmarsi un appiccicoso e respingente cerone bianco sul volto paonazzo e sudato.
Aveva senso domandarsi perché lo aveva chiesto?
No, non ne aveva.
Anche perché lui già l'adorava!
Lei lo seguiva attenta e, con la coda dell'occhio, lo vedeva friggere.
"Meglio così", si disse lusingata, avrebbero bevuto champagne di prima qualità per la sera e non quella scolatura di piatti da banco che gli rifilava Marcel.
Per dare un po' di soddisfazione al giovane disperato, fece cadere il bustier.
Sapeva quali erano i suoi pregi e il suo seno procace poteva velatamente mostrarsi di tre quarti...
Oh, insomma, per sorseggiare del biondo spento da qualche flute di autentico cristallo, che spiasse pure oltre le pieghe!
In fondo lei era lì anche per quello.
E poi, tutto sommato, si considerava una donna onesta.
Avrebbe potuto chiedergli la luna e invece lavorava solo per rimediare qualche calice di nettare di stelle.
Marcel questo non lo voleva capire, non la prendeva mai sul serio.
Non la riteneva in grado di poter sedurre certi clienti.
Ma lei aveva fascino da vendere, invece.
Ci sapeva fare.
E, soprattutto ora, quel signorino era lì per lei e non se lo sarebbe fatto scappare per nessuna ragione al mondo!
Henry seguì il corpetto che si adagiava su una sedia e represse malamente un gemito.
Il tessuto del bustier era color carne mentre, sulle rifiniture, gli parve lievemente più scuro.
Infatti era liso, le si era consumato addosso.
Era consunto dallo strusciarsi su e giù sulla pelle rosa.
Henry sapeva che il suo senso estetico avrebbe dovuto inorridire di fronte allo sconcio feticcio, invece si eccitò perdutamente.
Tutti i suoi indumenti di scena lo eccitarono oltremodo, e più erano scoloriti e usati, e più lui avrebbe voluto immergersi in essi e non risorgere mai più.
Lei sorrise fra sé.
Com'era facile sedurre i giovani ricchi!
Lo sentiva accendersi a ogni suo movimento e si accorse, sorprendentemente, che quel potere un poco la provocava.
Le piaceva piacere in quel modo.
Naturalmente non era la prima volta che le capitava.
Lei era la Gouloue, ma lui aveva proprio l'aria di un capretto appena nato.
Ne arrivavano molti di giovani come lui.
Le donne in quel genere di ambiente devono:
Concedersi niente, malamente e contro voglia.
Se questo era il motto per essere assolte, non c'era da meravigliarsene!
Colpa delle madri, si era detta risoluta.
"Se li tengono troppo stretti..."
Henry si schiarì la voce più volte, ma lo fece solo per coprire il battito del suo cuore al galoppo.
Non era stupido, sapeva di essere un'ottima preda.
Fra loro due, certo, non sarebbe stato lui il corsaro.
Comprendeva perfettamente quanto ella fosse allettata dal fatto di piacere a uno come lui, ma questa pastoia di lignaggi lo divertiva.
Si ritrovò a fare mille pensieri, tipico di una mente caricata a salve dalla passione, e arrivò perfino a chiedersi cosa ne avrebbero detto quelli della Federation nationale des syndicats.
La ballerina e lui:
il primogenito del conte Alphonse Charles-Marie de Toulouse Lautrec-Montfa...
Oh, mon Dieu... cosa andava pensando...?
Quanto era rapido, veloce il suo cervello, preda dell'eccitazione che gli scatenava quella donna.
Chissà, una volta a casa, come e quanto avrebbe disegnato.
Ma il suo intento, oramai, era di consegnarsi, anzi di mostrare l'onore delle armi.
Quanta sensualità può nascondersi in una sconfitta!
Nel camerino, intanto, il gioco era ormai palese.
Più lei mostrava feticci della sua intimità, più lui avrebbe pagato per averla.
"Suvvia, siete troppo accaldato Henry...", gli disse detergendogli la fronte.
L'altezza di Henry era molto scarsa e il gesto della danseuse lo scosse violentemente nel profondo.
Ma, soprattutto, lo fece trovare con il volto all'altezza del suo seno.
"Siete colpevole più di quanto possiate immaginare", rispose lui prendendo fuoco.
Poi, fissando quelle due forme rotonde che, si giurò, avrebbe ritratto sotto ogni punto di vista, emise un gemito caldo di sconforto.
Lei rise facendolo impazzire.
"E non mi avete ancora vista danzare, monsieur!"
Henry non mangiò quella sera, sebbene avesse l'appetito di un lupo della steppa.
Abbandonato a un tavolo laterale, il più nascosto ma anche il più vicino al punto dove si sarebbe svolta l'esibizione di Louise, incominciò a cuocere.
Seduto, attese.
Ma presto l'indugio si fece rovente.
Dovette placare le brame con un pesantissimo bicchiere di birra a cui, poi, ne seguì un altro e altri ancora.
La Goulue...
Ma poi, goulue di cosa?
Pregò stupidamente il cielo che quel nome non riguardasse altri uomini.
Non la conosceva che da pochi minuti e ne era già terribilmente geloso.
Avrebbe comprato tutti i biglietti, la prossima volta.
E se Maman non avesse accettato di dargli i soldi, si sarebbe impegnato i vestiti o qualsiasi altra cosa, pur di eliminare tutti gli spasimanti di lei.
Ed era ovvio che ce n'erano molti...
Moltissimi...
Forse avrebbe dovuto impegnarsi per il fitto del locale!
Si guardò intorno con occhio clinico e sospetto.
Quanti, fra gli uomini presenti, erano lì per lei?
E quanti, fra loro, l'avevano già avuta?
Ah, che dolore infernale!
E forse lei ne aveva riso con quello sguardo scanzonato e tenero che, poco prima, lo aveva messo in ginocchio per tutta la vita.
Poi, improvvisamente, l'aria cambiò.
Un rullo di tamburi annunciò le ventitré.
Nel locale la tensione si fece densa e palpabile.
Le percussioni ripeterono la rullata e accadde l'impossibile.
Quando gli uomini lasciarono cadere gli orologi nei taschini impugnando sigari e bicchieri, i loro visi non erano più quelli di prima.
I volti tirati, gli sguardi rapaci, segnarono l'inizio della fine.
"Occhio al cuore!", sembravano berciare le prime note, "...perché da adesso in poi... si volaaaaa!"
Una fila interminabile di angeli biondi, rossi, neri e meticci invase la sala avanzando al ritmo di un strepitoso galop che Henry non aveva mai sentito suonare in quel modo.
Oh, insomma, forse sì.
Certo che lo aveva sentito, ma a causa delle gambe di tutte quelle fanciulle, nulla poteva essere più dato per sicuro.
Forse sono morto e questo è il mio pezzo di paradiso, pensò.
Intorno a lui vedeva solo gambe, lunghe, poderose, tornite gambe che fendevano l'aria lasciando ombre e memorie di mare.
Annaspò fra tessuti e velluti con desideri di cotone e culottes ricamate, poi s'inginocchiò in terra per raccogliere i baci di dama lanciati come fiori umidi e atterrati al suolo come solidi sassi.
Tutto roteava intorno a lui e la brama si era fatta plissé.
I sospiri si erano tramutati in spasmi e gli spasmi seguivano il ritmo di quella melodia sempre più incalzante, così simile allo spartito di una notte di armonica lussuria.
Le cancanières avevano circondato i suoi sogni e i desideri lo torturavano dalla vita in giù, mentre l'alcool batteva sulle tempie e altrove senza che la sua grande timidezza potesse molto, liquefatta com'era in un residuo rarefatto di pudore.
Oh, mon Dieu, come la voleva!
Si sentì venire meno e si aggrappò a un sedia per non morire.
Le donne continuavano a ballare saltando instancabilmente su una sequenza di quattro passi, oltre che sulle brame degli astanti, senza alcun rigore.
Al primo e al terzo passo, una gamba veniva alzata fino all'altezza del petto, per poi tornare giù e sfiorare il suolo, mostrando ginocchia fasciate da calze lucide e brunite.
Ma, al secondo e al quarto passo, la stessa gamba veniva lanciata verso il cielo.
E allora, signori, si toccava la luna!
Quindi, dopo aver lasciato le loro ombre negli occhi degli astanti ed essere svanite fra le quinte, le meraviglie a due gambe tornavano alla carica ripetendo l'amplesso danzante a un ritmo furioso.
Louise lo fissava ridendo, ma lui non capiva.
Sembrava proprio volesse dirgli qualcosa...
Ma cosa?
Battuti i quattro quarti, si accorse che ella non aveva più le adorate culottes, e allora comprese cosa.
Che sfacciata, che impudica!
Che festa una donna così!
Ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse scottato le corde vocali in un invisibile gratin perché, improvvisamente, la voce smise di uscire e le lenti degli occhiali si ricoprirono di tiepida brina.
La verità vera era che in quel preciso momento Henry non riusciva più a trovarsi.
Aveva smarrito sé stesso perché si stava lasciando andare nella rugiada dei desideri e del furore.
L'alcool poteva dare il coraggio che serviva per assaggiare l'amore.
Perché no?
In fondo lo scrivevano i poeti, di pinte e parole ne discutevano gli intellettuali, lo succhiavano a casse i pittori.
E accidenti se non poteva!
Dunque, anche a lui era concesso bere.
Ma se la birra doveva dare coraggio a qualcuno, quel qualcuno non fu Henry.
Troppa bellezza, troppo gioia tutta insieme, troppa libertà!
Troppi cumuli di sensualità e meraviglia diffusa.
La bestia annusò la preda e venne fuori all'improvviso.
E proprio quando era riuscito a raggiungere l'entrata per mendicare una boccata d'aria, fu schizzato dalla colpa.
Ora tutto era chiaro.
Sì, sì, forse distorto, ma così orribilmente logico.
Come poteva sperare lui di fronte a tanta speciosità?
Un essere informe al cospetto di tanta desiderabile forma?
Lui, misero Adamo alla chiamata della immaginifica Eva.
Ma no!
Ma quale Adamo, quale Eva!
Lui, uno storpio qualsiasi che aveva urlato "Presente!" all'appello di Venere.
Oh, che stupido!
Questo era il motivo per cui Maman lo aveva lasciato andare.
Maman lo aveva abbandonato davanti alla lussuria purché giacesse in eterno sotto di lei e, una volta prigioniero, corrotto e sudicio di desiderio, non potesse più fare ritorno!
L'alcool non aiutava lo scorrere fluido dei pensieri, questo era vero.
Ma a tutto il resto pensava la rabbia.
Poi la rabbia divenne furia e la furia lo fece rientrare.
Dov'era, dunque, quella donna?
Avrebbe pagato per averla, i soldi non possiedono mutilazione.
Non c'è straniero di fronte alle perle.
Anche un degenerato come lui sarebbe stato in grado di amarla.
E magari, con un'oncia d'oro in più, lei avrebbe potuto far finta di non vedere le sue disarmoniche e mal cresciute gambe.
Con questi sentimenti l'attese davanti alla porta del suo camerino.
Era pronto a commettere il peccato che, per statuto, gli avrebbe concesso la piena cittadinanza di quei luoghi e di oltrepassare il periglioso confine che divideva il mondo di Maman dalla vita.
***
Si dice che la mitica ballerina alsaziana Louise Webber sia stata l'autorevole e ingegnosa inventrice del CAN CAN.
Di lei le cronache dell'epoca parlano come di una donna determinata, volgare e volitiva.
Si dice che le fosse venuta in mente la tipica sgambettata del CAN CAN una domenica, mentre ammirava le lavandaie alle fontane.
Si dice anche che le sue passioni non furono solo maschili.
Non è certo se il pittore abbia avuto una vera e propria liaison con la prorompente vedette, ma senza dubbio li unì un profondo legame.
A ogni modo, l'amicizia che Toulouse Lautrec strinse con La Goulue li celebrò fortemente entrambi.
Grazie a lei, lui conobbe a fondo la vita delle cancanières e l'ambiente che le circondava, che sarà poi oggetto di molti dei suoi quadri.
E grazie a lui, lei fu da tutti riconosciuta come l'inventrice della rinomata danza francese.
Ma Henry fece ancora di più per Louise.
Prima la convinse a trasferirsi come una grande etoile al Moulin Rouge.
Poi la immortalò per sempre nella litografia a noi nota come Moulin Rouge - La Goulue, datata 1891.
L'immagine della vedette Louise Weber è il centro da cui partono tutte le realtà che compongono l'opera.
Di formato rettangolare, con l'altezza ben più lunga della base, la litografia consta essenzialmente di quattro colori:
giallo, rosso, nero e bianco.
La Goulue è agghindata con un vestito vermiglio a pois bianchi.
Al collo ha una strisciolina rosso scuro, probabilmente di velluto liscio, e, immaginiamo, a cui poteva essere legato un ciondolo.
I capelli della donna sono biondi, la pelle è candida e immacolata.
Qui, l'agile vedette è colta in movimento.
Le mani sono impegnate a sollevare l'abito da cui fanno capolino i diversi strati della sottoveste di cotone.
La gamba destra è sollevata e sottoposta a un'evidente tensione, mentre con la gamba sinistra si mantiene in equilibrio.
La tensione plastica rappresenta un ballo molto noto dell'epoca, il cui nome era Chahut, danza molto, molto simile al Can Can.
L'ambiente rivela degli sfondi dalle tonalità gialle, quasi senape, così come il pavimento e qualche lume che rimanda della luce arancione.
In alto a sinistra la scritta rossa, tutta in maiuscolo, Moulin Rouge viene ripetuta tre volte.
Per la nomenclatura tipografica le scritte sono giustificate a pacchetto, ossia inscritte in un rettangolo ideale.
In questo caso la M maiuscola di Moulin è molto grande e da essa parte il nome "oulin" ripetuto tre volte, nonché le dimensioni dello schema rettangolare.
In alto a destra la scritta nera
Concert BAL.
Sotto, in carattere più piccolo, campeggia l'avviso Tout le soirs.
Quindi, al centro, in nero:
La Goulue.
E in basso, sulla sinistra, la firma dell'artista.
Sullo sfondo si stagliano, sempre in nero, le sagome del pubblico e s'intuiscono cappelli e abiti alla moda dell'epoca.
In primo piano, sulla destra, la sagoma di un uomo con una grande tuba rappresenta il ballerino Valentin Le Desossè, partner della vedette.
Le figure nere che circondano la donna, come rilevano tanti fra gli osservatori dell'artista, hanno un carattere fortemente caricaturale.
Tratto tipico della pittura di Lautrec.
Uno dei tanti modi, per l'autore, di sottolineare il suo dissenso e la sua presa di distanza dal mondo accademico.
Tuttavia, a nostro modesto avviso, le sagome nere non suggeriscono solo gli ideali del pittore, ma rivelano anche un tratto della sua personalità e dei suoi prioritari interessi.
L'immagine attraente, partecipata, colorata, infatti, è La Goulue.
Tutto il resto sono sagome indistinte che le girano intorno.
Sembrerebbe l'istantanea di un colpo di fulmine e, se non lo fu, resta il fatto che il manifesto rimanda ai posteri l'idea di qualcosa di indimenticabile.
A ogni modo, l'affiche, oltre a essere abilmente evocativa delle atmosfere e delle luci dell'epoca, è una presentazione eccezionale dell'evento che rappresenta.
Sembra davvero urlare al mondo:
"Signori e signore, ecco a voi il CAN CAN!"
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