«Non c'è musica possibile senza Rubato». Il fraseggio e l'articolazione del discorso erano certamente elementi essenziali nel linguaggio musicale di
René Leibowitz (Varsavia, 17 febbraio 1913 - Parigi, 28 agosto 1972). Il direttore d'orchestra, compositore, teorico e didatta francese di origine polacca avrebbe potuto essere un enfant prodige, quando a cinque anni diede chiari segnali di un eccezionale talento musicale al violino, se il saggio padre non avesse deciso per lui un'infanzia normale, evitando una precoce carriera concertistica.
Evidentemente fu la scelta giusta, perchè René Leibowitz non perse interesse per la musica e continuò a studiare con assiduità. Trasferitosi con la sua famiglia a Parigi, entrò nella classe di composizione e orchestrazione di Ravel e grazie al pianista e compositore tedesco Erich Itor Kahn conobbe le nuove teorie di Schoenberg, che ebbe poi modo di approfondire con l'allievo prediletto di questo, Anton Webern. Leibowitz adottò ben presto il linguaggio dodecafonico, di cui divenne uno strenuo difensore.
In realtà l'affermazione della Seconda Scuola Viennese molto deve alle sue scelte di repertorio e alla sua attività didattica - tra i suoi allievi ricordiamo i compositori Pierre Boulez, Serge Nigg, André Casanova e Hans Werner Henze. Come direttore d'orchestra l'attività di René Leibowitz è legata a molti progetti discografici, tra i quali il più importante è l'incisione per la pubblicazione Reader's Digest delle sinfonie di Beethoven seguendo le indicazioni metronomiche del compositore.
Il programma a lui dedicato lo vede alla testa della London Festival Orchestra nell'esecuzione del
Prelude à l'apres-midi d'un faune di
Claude Debussy e poi con la Royal Philharmonic Orchestra e il pianista americano Earl Wild per il
Concerto per pianoforte e orchestra in la minore op. 16 di
Edvard Grieg.
Ultimo ascolto del programma, la
Sinfonia n. 9 in do maggiore, detta
"La grande", D 944 di
Franz Schubert è l'ultima sinfonia composta per intero dal musicista viennese.
Terminata nel 1828 e iniziata già nel 1825, la composizione è un edificio imponente dalla complessa elaborazione musicale. Dimenticata per molto tempo, si deve a Robert Schumann il merito di averla riportata alla luce. Ottenuto l'accesso alle carte del compositore dal fratello Ferdinand Schubert, Schumann scoprì il manoscritto dell'ultima sinfonia e subito lo propose a Felix Mendelssohn.
Della fortunata prima esecuzione del 21 marzo 1839 Schumann stesso scrisse sulla
"Neue Zeitschrift für Musik" un entusiastico articolo critico in cui parlò di
"completa indipendenza da Beethoven" e di
"divina lunghezza".
La sorprendentemente ricchezza dell'invenzione melodica nasconde in realtà una unità strutturale molto solida che sfocia nel Finale, coronamento e summa di tutte le proposte tematiche, dove si fondono, per dirla con le parole di Schumann,
"i germi di una eterna giovinezza".