Abbandonati senza nome: raccontare la storia dei migranti non identificati


Photo credit: © Mstyslav Chernov
 

Dall’inizio dell’anno centinaia di migliaia di migranti e rifugiati hanno raggiunto l’Europa via mare. Migliaia di loro sono morti in quelle acque, ma non c’è un sistema integrato per il conteggio delle morti, e molti di coloro che hanno perso la vita in mare non verranno mai portati a riva o se ci arriveranno probabilmente saranno depositati senza nome e senza funerale in un cimitero in Italia meridionale o in Grecia. Le loro famiglie potrebbero non conoscere mai la loro sorte.

Sia ricercatori che giornalisti hanno affrontato questo tema delicato, i primi raccomandando soluzioni e i secondi per raccontare una storia che spesso finisce fuori dal radar.

Giorgia Mirto è una dei ricercatori di “Mediterranean Missing”, un progetto nato da una partnership tra City University di Londra, Organizzazione internazionale per le migrazioni e Università di York. Ha raccolto dati in Italia e, insieme ad una collega, ha girato per gli uffici di stato civile delle città costiere in Puglia, Sardegna meridionale, Sicilia, Calabria e città portuali per ottenere gli originali dei certificati di morte. Tuttavia, in alcune regioni il sistema di registrazione ha gravi falle, e quindi può accadere che non ci siano certificati di morte che corrispondano ai corpi. In questi casi Giorgia e la sua collega hanno dovuto recarsi direttamente nei cimiteri per leggere i loro registri.

“In Europa la percentuale di identificazione si aggira intorno al 50 per centro,” – spiega Giorgia – “ma in Italia è più bassa, soprattutto in alcune aree”.

E una volta che il corpo rimane non identificato viene seppellito localmente, spostandosi dalla costa all’interno man mano che i cimiteri si riempiono. Le loro tombe vengono generalmente pagate dalla locale “opera pia” e non riportano alcun nome.

Il problema non è di poco conto, non solo perché stiamo parlando di esseri umani che hanno perso la loro vita, ma anche a causa delle famiglie e delle persone che continuano ad aspettare una chiusura emotiva che non arriva, come spiega Iosif Kovras, nativo di Lesbo e parte del team di “Mediterranean Missing”.

“Se perdiamo qualcuno, proviamo a superare il dolore, ma le famiglie di migranti dispersi o non identificati non possono nemmeno iniziare il processo”, dice Iosif. “Sono bloccate in un limbo. Questo tipo di perdita ambigua ha un impatto molto duro sulla vita di tutti i giorni e può portare a forme di depressione e stress post-traumatico. Per loro spesso è impossibile iniziare una nuova vita”. Coloro che perdono un parente spesso dedicano la loro vita alla ricerca, intrappolati tra speranza e disperazione.

È anche per aiutare queste famiglie spezzate che il Comitato internazionale della Croce Rossa ha implementato “Restoring Family Links”, un programma che cerca di far corrispondere richieste e informazioni in modo da mettere in contatto i migranti dispersi con le loro famiglie, oppure informare quelle famiglie di eventuali morti. “Se sei disperso nel Mediterraneo dopo un naufragio, non sei disperso, sei morto. Quei corpi ci ricordano che ci sono delle famiglie, e che quei corpi vanno seppelliti con rispetto”, dice Andrea Pettini, capo del progetto RFL in Italia.

Sul tema dei migranti che hanno perso la vita in mare, due giornalisti della BBC, Vladimir Hernandez e Nassos Stylianou, hanno prodotto un reportage sui migranti annegati e sulle tombe senza nome. Il mezzo che hanno scelto è un webdoc, che include mappe, video girati da un drone e video tradizionali accompagnati dal testo. Abbiamo fatto loro alcune domande sul progetto e sulle sfide che derivano dal raccontare una storia dalla vasta portata crisi migratoria per un’emittente pubblica come la BBC.

Tra tutti le diverse angolazioni possibili per raccontare questa storia e le prospettive utilizzate da altri giornalisti, come vi è venuta questa idea?

N.S.: Online la BBC ha seguito le varie componenti della storia – gli arrivi, le condizioni in Grecia o in Italia, che percorso hanno seguito, ma spesso il tutto si riduceva a numeri e statistiche. Abbiamo cominciato a chiederci cosa accadeva ai corpi.

V.H.: Era da un po’ di tempo che mi occupavo di migranti e dopo aver visto così tante persone perdere la vita, un collega ed io abbiamo iniziato a sentire di posti preparati appositamente per seppellirci migranti; a Lesbo, per esempio, il cimitero era pieno, dove andavano a finire gli altri? Ci si inizia a fare delle domande e si scopre che qualcosa sta accadendo nelle città costiere, dove le strutture esistenti non sono in grado di gestire il problema.

Fondamentalmente, questo lavoro è il risultato del nostro tentativo di trovare punti di vista non ancora utilizzati – la sfida è scovare modi di raccontare una storia importante da prospettive nuove.

Perché avete scelto di raccontare questa storia sul web?

V.H.: Il mio team si occupa di pezzi di approfondimento online e storytelling digitale. In questo caso, un pezzo per il web ha funzionato bene per dare un’idea del processo di raccolta del materiale, si trattava di qualcosa che nessun’altro aveva fatto. Abbiamo anche realizzato delle versioni per la radio e la televisione, ma quella online è venuta per prima. Se fai qualcosa online, rimane.

Ci siamo anche concentrati sul rendere la storia appetibile sui social media e se è una storia nata per il digitale, ci sono molti modi per farlo. Per esempio, prima di pubblicare il progetto più ampio sui dati, abbiamo pubblicato sui social media dei filmati girati con il drone che mostravano tombe senza nome in un cimitero, e lo abbiamo utilizzato come un trailer che potesse attrarre lettori.

N.S.: (La narrazione sul web) è stata un buono strumento per combinare il lato umano della storia con dati e mappe, per aiutare le persone a comprendere meglio la prospettiva della tragedia umana e allo stesso tempo quantificare numeri e farsi una idea dei luoghi. L’intero lavoro è stato pensato specificatamente per andare online.

Qual è stato l’aspetto più difficile di questo progetto?

N.S.: Dal mio punto di vista, il problema principale è stato trovare dei dati accurati, molte autorità non avevano dati specifici e cifre relative al numero di tombe, campioni del DNA prelevati, e migranti che erano stati identificati.  Quindi il problema è stato ottenere quei dati ed essere sicuri che fossero utilizzabili e combaciassero con la nostra ricerca.

V.H.: È stato difficile confermare i dati, quindi siamo partiti alla volta di diverse destinazioni, io in Italia e altri team in Italia e Turchia. Un reporter in Turchia ha dovuto recarsi nei vari cimiteri, contare le tombe e poi confrontarle con i dati ufficiali. In generale, in Italia è stato più semplice.

Qual è la principale sfida per un’emittente pubblica che ha il dovere di informare il pubblico sulla crisi migratoria?

V.H.: La sfida più grande è mantenere il pubblico interessato. In quanto emittente pubblica abbiamo un tipo diverso di pressione addosso, dobbiamo essere sicuri di produrre qualcosa che il pubblico leggerà e guarderà.

Quando si tratta di migranti e rifugiati vediamo così tanti numeri e finiscono con l’essere freddi e distanti. È importante aggiungere un aspetto umano alla storia, per esempio video emozionanti che possano parlare da soli. E le storie vanno raccontate in maniera coinvolgente.

Cosa ci si può aspettare in futuro?

V.H.: In generale il traffico verso i siti sta diminuendo, mentre quello sui social media sta aumentando. Penso che dovremmo produrre contenuti adatti alle piattaforme dove le persone li guarderanno, ovvero i cellulari. Per esempio, penso che le app per chattare, per esempio Whatsapp, abbiamo un grande potenziale. La BBC ha fatto un test a gennaio con un documentario digitale in Africa. Migliaia di persone si sono iscritte per ricevere gli episodi su Whatsapp, ma non avevamo modo di sapere quanti di loro li abbiamo effettivamente guardati. Comunque penso che dovremmo chiederci dove il pubblico consuma contenuti oggi.