In un paese come l’Italia, la migrazione non è semplicemente questione di sbarchi. Le persone arrivano da secoli, soprattutto adesso con la recente crisi umanitaria in Siria e in molti paesi dell’Africa occidentale e sub-Sahariana, ma spesso anche quei migranti che si sono stabiliti e vivono in Italia vengono ancora etichettati come “stranieri”.
In aggiunta, c’è la difficoltà del dedicare tempo a investigazioni più approfondite quando il mondo dell’informazione predilige la velocità.
Abbiamo parlato di queste tematiche con
Raffaella Cosentino, che si è occupata di temi sociali e diritti umani negli ultimi anni e ora lavora come giornalista in RAI presso la TGR Sicilia.
Quanto è importante parlare di migrazione? E quali aspetti dovrebbero essere sottolineati in Italia?
Prima di tutto, la situazione attuale non dovrebbe essere rappresentata come un’emergenza – anche perché il numero di arrivi totali in Italia è gestibile – piuttosto occorrerebbe descriverla come una crisi umanitaria. L’approccio allarmista che ha prevalso finora non è la giusta inquadratura.
Un altro problema è la tendenza ad appiattire l’informazione, e lo storytelling in generale, sugli arrivi. Anche se i migranti sono parte della società italiana da decenni, le minoranze che vivono nelle nostre città vengono spesso ignorate.
Per esempio, mentre in altri paesi europei, per esempio il Regno Unito, si chiedo se ci sono abbastanza rappresentanti di minoranze all’interno di una redazione, in Italia siamo rimasti molto indietro e non diamo una voce a queste persone nemmeno nell’informazione quotidiana. Spesso facciamo loro domande solo quando si parla di temi legati all’immigrazione, appiattendo ulteriormente il racconto.
Dobbiamo relazionarci a questo tema in modo esaustivo, e questo non solo quando si tratta di informazione; gli stessi problemi esistono anche nel cinema, nelle canzoni, nel teatro.
E per quanto riguarda l’informazione nello specifico?
Un primo errore – anche se ultimamente c’è stato un miglioramento – è fare poca attenzione alla scaletta quando si costruisce un telegiornale. Per esempio, nel corso di un analisi che ho condotto in passato per
Questione di immagine, è emerso che quando una notizia che riguarda uno straniero come autore di un crimine viene inserita nella scaletta, molto spesso seguono altre notizie di crimini commessi da immigrati. Se su dieci notizie, sette tratteggiano un ritratto negativo dei migranti, è evidente che la meta-narrativa sottostante è fuorviante.
Per quanto riguarda gli arrivi, c’è stato un notevole miglioramento nel modo in cui vengono descritti. I giornalisti prestano più attenzione sia alle parole sia alle immagini che usano. Non si sentono più termini stigmatizzanti e c’è un concreto sforzo di raccontare le storie dietro i numeri.
Tuttavia, non è sempre facile uscire da questa serie di pezzi in cui ci sono solo numeri, soprattutto perché i telegiornali non si basano sulla logica di un’informazione approfondita.
Infine, per quanto riguarda le immagini, i giornalisti adesso fanno attenzione a non mostrare i volti di minori o migranti che provengono da paesi come l’Eritrea. A mio avviso, c’è anche una questione in sospeso circa la Carta di Roma. Se si vuole informare sulla migrazione facendo un racconto umano, allora è necessario mostrare il volto di queste persone, con tutte le necessarie precauzioni.
Che tipo di storie hai trattato e come hai cercato di raccontarle?
Raccontare le storie delle persone è cruciale per dare loro una dignità, soprattutto perché a volte vengono de-umanizzate.
Per esempio, quando lavoravo ancora come freelance,
ho visitato i campi per i rifugiati in Giordania con il fotografo Denis Bosnic, che ha raffigurato i rifugiati in ritratti in primissimo piano. Così si vedevano i loro occhi. È importante mostrarli e trasmettere le loro emozioni.
Ci sono molte storie interessanti, se si sa dove guardare. In molti casi, i migranti in realtà ci aiutano a migliorare la nostra società. Per esempio, penso al fatto che il caporalato è un reato penale grazie alle proteste dei migranti.
Spesso, però, il racconto della migrazione è in chiave negativa, mentre le storie positive vengono dimenticate. Ma, come si dice, “good news, no news”, e la tendenza è quella ad appiattirsi sulla cronaca, anche se c’è un grande bisogno di vedere le persone che abbiamo davanti come persone.
In aggiunta, dovrebbe esserci un maggior lavoro di approfondimento. Con così tanto rumore di fondo, una bella storia di approfondimento viene apprezzata dal pubblico e può aiutare a qualificare un’azienda editoriale come un’azienda di qualità.
E per quanto riguarda le storie di donne rifugiate?
Mi sono occupata di storie di donne rifugiate in svariati modi.
Alcune storie sono positive, come quella di Nawal Soufi, arrivata a Catania dal Marocco con i suoi genitori quando aveva solo pochi mesi. Ora ha 28 anni e ha vinto il Premio Cittadino Europeo 2016 per l’aiuto che ha dato a migliaia di siriani che quando erano in pericolo di vita in mare chiamavano il suo numero in modo tale che Nawal potesse allertare i soccorsi.
E poi ci sono le storie negative, come quelle delle ragazzine nigeriane che sono vittime della tratta. Quando ero a bordo della nave Aquarius di SOS Méditerranée, ho visto soccorrere tante ragazzine. Dicono che sono maggiorenni, ma in realtà non lo sono. Credo che questa storia debba ricevere più attenzione.
Tuttavia, si tratta di storie che hanno bisogno di tempo per essere raccontate correttamente, come si meritano.