Alla scoperta del Mobile Journalism/1: Demolire la Torre d’Avorio


Dal momento che internet e i telefoni cellulari hanno trasformato il modo in cui consumiamo le notizie, i giornalisti sono stati costretti a reinventare le modalità con cui raccolgono e producono le notizie. Il Mobile journalism, o “MoJo”, è un buon esempio di come i giornalisti adesso utilizzano i propri smartphones, oltre che altri articoli tecnologici alla portata di tutti, per informare, coinvolgere e distribuire le notizie.

Glen Mulcahy, responsabile innovazione di RTÉ, l’emittente di servizio pubblico irlandese, ci ha spiegato come il MoJo si è evoluto e come può portare a una maggiore interazione con il pubblico.

Come si è evoluto il MoJo all’interno di RTÉ?

Il mobile journalism è la naturale continuazione del video giornalismo, che ha iniziato a prendere piede negli anni 2000. Michael Rosenblum  è considerato il padre del video giornalismo e diede vita alla prima stazione televisiva basata sul lavoro dei VJ (Video Journalist), NY1, nel 1992.

Nel 2002, quando RTÉ iniziò a pensare di includere VJs nel flusso di lavoro, andai a New York e studiai il lavoro di Rosenblum. A seguito del mio rapporto sull’esperienza, RTÉ decise di adottare il video giornalismo e iniziammo a formare giornalisti così che fossero in grado di filmare e montare autonomamente.

Nel 2008/2009 girai un video con un iPhone 4, mentre i giornalisti che stavo supervisionando lavoravano. Poi lo inviai alla redazione via ftp, senza dire loro che era stato girato con un telefonino. Passò i controlli di qualità. In seguito a quell’episodio, un altro VJ freelance fece la stessa cosa e di nuovo il video passò e fu mandato in onda. Solo a quel punto rivelammo che era stato girato con un telefono.

Ovviamente il fatto diede vita a un grande dibattito, anche perché coinvolgeva il lavoro di varie categorie, dai giornalisti ai cameramen.  Quindi, parlai con il caporedattore – i kit da VJ erano costosi (circa 7,000-8,000 euro) e allo stesso tempo molti giornalisti volevano che la redazione fornisse loro uno smartphone, quindi mi sembrava un’ottima soluzione per entrambe le questioni.

All’inizio non prese il via molto velocemente. Iniziai anche a insegnare ad altri giornalisti in altre compagnie, come Al Jazeera. Per loro è stata una cosa semplice, sono subito saltati a bordo.

Ora a sei anni di distanza, posso dire che anche se non il MoJo non è utilizzato tanto quanto vorrei,  ci sono stati degli esperimenti davvero molto interessanti.

Quali sono i vantaggi che il mobile journalism può offrire?

Il MoJo può rendere lo storytelling molto intimo e ha dimostrato di essere molto utile in ambienti ostili. Sempre di più viene utilizzato come uno strumento complementare, in parallelo rispetto al metodo tradizionale. In aggiunta, molti giornalisti ora condividono video sui social media direttamente dai loro telefoni cellulari.

In che modo i media di servizio pubblico si stanno adattando a nuove soluzioni, come il MoJo?

I media di servizio pubblico stanno sperimentando, ma questo non significa necessariamente che ci siano effettivamente puntando. In genere fanno ricorso a una versione “run & go” del mobile journalism, non la versione più ricercata.

Preparano i propri giornalisti in modo tale che conoscano le basi e possano filmare con i loro telefoni cellulari se necessario. Alcuni di questi broadcaster dispongono anche di spazi dedicati al training online sia per il proprio staff sia per il pubblico. Alcuni pubblicano anche interi servizi girati con smartphone, ma solo online.

Alcuni broadcaster poi, sia pubblici sia privati, utilizzano i telefoni cellulari per le dirette, per esempio Sky News con stream live che vanno direttamente in onda, ma anche BBC e RTÉ.

Può indicarci alcuni esempi positivi di MoJo?

Un ottimo esempio è quello che Shadi Rahimi di AJ+ ha fatto durante le proteste di Ferguson. Erano in diretta con i telefoni cellulari in contemporanea da sette location diverse. Erano dei filmati molto rudimentali, ma si è trattato di un lavoro molto reattivo ed efficace soprattutto se guardiamo alla reazione del pubblico.

Un altro esempio di buona prassi è il lavoro fatto dallo Spiegel Online per raccontare la crisi migratoria in Germania. Hanno inviato sul campo un MoJo swarm, ovvero un gruppo di 10/15 giornalisti tutti armati di smartphones, per raccontare la situazione per 24 ore – un tema comune, ma visto da diverse angolazioni. Mentre i giornalisti procedevano con il lavoro, pubblicavano i propri contenuti multimediali all’interno di un blog online.

In che modo il MoJo si inserisce in una strategia “digital first”?

Il Mobile Journalism si inserisce molto bene in una strategia che mette il digitale al primo posto, con cui i broadcaster al momento stanno cercando di fare i conti.
I giornalisti ancora vogliono prima di tutto andare in onda, ma dovrebbero capire che i due aspetti possono convivere – si può avere il proprio pezzo rifinito in onda, ma nel resto della giornata si può postare sui socia media e magari fornire retroscena interessanti della storia, seguendola mentre si svolge.

Quello che i giornalisti devono capire è che la Torre d’avorio non esiste più. Possono venire contestati circa ciò che dicono sui social media, ed è una buona cosa. Ma devono anche essere disposti ad interagire con il pubblico durante la giornata.

Il MoJo rende possibile questo tipo di interattività, senza però compromettere i valori portanti della professione.