Molti dicono che ciò che distingue la crisi attuale rispetto ad altre che l’Europa ha affrontato in passato è il ruolo giocato dalla tecnologia.
Gli smartphone sono diventati una presenza fissa nelle vite di miliardi di persone nel mondo, ma ancora di più nelle vite di coloro che intraprendono viaggi pericolosi via terra o via mare per fuggire da conflitti, fame e povertà. L’importanza di questi strumenti per i rifugiati è stata evidenziata in un recente rapporto anglo-francese e dal lavoro di una ONG svedese.
Migranti e rifugiati utilizzano i loro smartphone come strumenti di navigazione, comunicazione e tradizione, come rilevato da una ricerca condotta in partnership da Open University e France Media Monde. Il rapporto che ne è risultato,
“Mapping Refugee Media Journeys”, esplora il tipo di informazioni di cui queste persone hanno bisogno a seconda delle diverse tappe del loro viaggio verso l’Europa, ma anche quali informazioni mancano e invita le istituzioni europee ad agire per fornire risorse che possano aiutare i rifugiati a prendere decisioni informate.
Secondo Marie Gillespie, professoressa di sociologia alla Open University, “lo smartphone ha trasformato la natura stessa dei flussi di rifugiati”. È diventato visibile nel 2015, quando l’uso di telefoni, soprattutto da parte dei rifugiati siriani, si è dimostrato vitale per comunicare e scambiare informazioni, oltre che per la navigazione e la traduzione.
“Le informazioni che si ricevono da amici e familiari che hanno già intrapreso il viaggio consente ai rifugiati di decidere quando partire e dove andare, quali sono i mezzi di trasporto migliori,” spiega Gillespie. Aggiunge anche che gli smartphone, insieme alle piattaforme a cui consentono di accedere “forniscono una infrastruttura digitale che è importante tanto quanto l’infrastruttura fisica dei loro viaggi, dalle strade agli attraversamenti in mare”.
In alcune situazioni essere in grado di utilizzare un programma di traduzione sul proprio telefono quando ci si trova ad un posto di confine può rivelarsi risolutivo e permettere a rifugiati in difficoltà di ricevere le cure necessarie. Per esempio, Gillespie cita la storia di una donna incinta che aveva necessità di cure mediche urgenti al confine con la Serbia, il cui marito ha utilizzato un programma di traduzione per spiegare la situazione a una delle guardie. Questo ha avuto un immediato effetto umanizzante, che ha aiutato la donna a ottenere l’assistenza di cui necessitava.
A partire da marzo 2016, la situazione è cambiata con la chiusura di numerosi confini lungo la rotta balcanica. Questo ha portato a un mutamento nel modo in cui i rifugiati utilizzano i propri cellulari e nel tipo di informazioni che cercano.
“Al momento, solo in Grecia ci sono circa 61000 rifugiati bloccati nei campi,” dice Gillespie, “e l’uso che fanno dello smartphone è completamente differente. Cercano notizie relative alla ricollocazione o alla deportazione.” Il fatto che il processo di ricollocazione vada avanti così lentamente, significa anche che è molto difficile avere accesso a informazioni affidabili circa la situazione corrente. “È un incubo per i rifugiati,” racconta Gillespie, “so di alcuni afghani che sono bloccati a Mitilini da quasi 11 mesi. Così tante speranze sono state spazzate via.”
Gli smartphone possono essere uno strumento salvifico, ma allo stesso tempo sono una sorta di arma a doppio taglio. Secondo Gillespie, “lo smartphone rappresenta il paradosso delle moderne tecnologie. È uno strumento di riscatto, ma ci sono anche degli aspetti di sorveglianza in gioco”. Utilizzando i propri telefoni per ottenere informazioni e mappare il proprio viaggio, i rifugiati si lasciano dietro delle tracce digitali, che li rendono vulnerabili sia alla sorveglianza sia ai trafficanti.
Lo stesso vale per le telecamere dei telefoni. “Le foto possono aiutare i rifugiati in quella che chiamiamo testimonianza digitale degli abusi che subiscono dai trafficanti o dalle autorità di frontiera,” spiega Gillespie. Queste foto da un lato possono aiutarli a documentare situazioni che possono citare per la loro richiesta di asilo, ma dall’altra sono prove pericolose da portare con sé.
In aggiunta, avere uno smartphone non significa avere la garanzia di accedere a informazioni corrette e veritiere. Ci sono molte dicerie in circolazione e i trafficanti le sfruttano. Per questo motivo il report curato da Gillespie invita le istituzioni europee a lavorare per fornire informazioni affidabili e produrre politiche intelligenti sulla migrazione.
“A livello di politiche europee, dobbiamo ammettere che l’Europa ha fallito nel gestire questa crisi umanitaria,” dice Gillespie. “Dopo gli attacchi di novembre a Parigi, c’è stato un cambiamento nell’iniziale politica di accoglienza e questo ha avuto un effetto sulle istituzioni, che ora pensano che se forniscono informazioni possono essere accusati di facilitazione”, continua Gillespie.
Sembra che la Commissione europea abbia riconosciuto le conclusioni del report, ma secondo la professoressa c’è il rischio che qualsiasi cosa si faccia adesso sia troppo poco e troppo tardi, soprattutto perché, dopo tutto quello che hanno subito da quando sono arrivati in Europa, non è scontato che i rifugiati si fidino delle risorse che potrebbero fornire le autorità.
Tuttavia, l’importanza di questo strumento rimane, ed è sulla base di questa consapevolezza che nel 2015 un’organizzazione no-profit come
Refugees Phones. L’obiettivo di questa organizzazione è raccogliere smartphones che poi vengono donati a rifugiati in Svezia, dove il progetto è partito, e a Calais, dopo l’apertura di una organizzazione partner nel Regno Unito.
Abbiamo parlato con uno dei fondatori, Gustav Martner, che ci ha spiegato come è nata questa idea e qual è l’obiettivo che vogliono raggiungere.
“È tutto iniziato l’anno scorso, quando all’improvviso sempre più rifugiati hanno cominciato ad arrivare in Svezia. Il nostro sistema di accoglienza è stato sopraffatto e questo ha portato alla nascita di molte iniziative di cittadini comuni,” spiega Gustav.
Sono nate numerose organizzazioni per garantire cibo, denaro, riparto ai rifugiati che si ammassavano nelle stazioni svedesi. Gustav ha visto che alcuni suoi conoscenti davano una mano e un giorno ha deciso di unirsi.
È stato allora che ha realizzato che molte persone avevano bisogno di telefoni. “Ho un passato nel marketing e ho lavorato molto con gli operatori telefonici; sapevo che avrei avuto buone chance di riuscita,” dice Gustav.
Quando è partita l’attività, in sole 48 ore sono stati raccolti centinaia di telefoni e cash card. Hanno costruito una rete molto velocemente, e ora Refugees Phones ha fornito più di 6000 telefoni solo in Svezia.
In seguito alla chiusura dei confini, la situazione è cambiata anche in Svezia, ma secondo Gustav, “è molto importante continuare con questo progetto.
“Ora stiamo lavorando di più con l’integrazione e in questo senso gli smartphone possono essere un grande strumento per imparare lo svedese e per permettere ai ragazzi di studiare meglio a scuola”.
In Svezia, Refugees Phones aiuta sia rifugiati senza documenti sia quelli che aspettano i risultati dell’appello per la propria richiesta di asilo rifiutata. “Stiamo cercando di restare fuori dalle discussioni su cosa è legale e cosa no; siamo semplicemente qui per aiutare perché se hai un telefono, le possibilità che tu riesca ad avere un futuro migliore sono maggiori”.
“Per me garantire lo stesso accesso alla tecnologia è una questione di democrazia; non li tratti in maniera giusta altrimenti,” conclude.
Alcuni giornalisti hanno realizzato pienamente l’importanza dello smartphone per i rifugiati. Un esempio è il lavoro fatto dal giornalista di SRG SSR Nicolae Schiau, che ha lavorato a
“Exils”, vincitore della categoria web al Prix Italia di quest’anno.
Non solo Schiau ha seguito sei ragazzi lungo il percorso dalla Turchia verso la Germania, ha anche capito che lo smartphone era uno strumento fondamentale se voleva raccontare questa storia nel modo giusto. “Sarebbe stato impossibile produrre Exils con strumenti tradizionali; in alcune situazioni se vai in giro con una telecamera e un microfono, innalzi una barriera tra te e tutti gli altri,” ha detto Schiau.
Il suo smartphone è stato, in effetti, uno strumento per avvicinarsi ai ragazzi con cui stava viaggiando. “Questa storia è iniziata con un selfie in Turchia,” ha raccontato Schiau. “Ho visto questi ragazzi che si scattavano un selfie e ho chiesto loro se stessero per partire. Hanno detto che erano diretti in Germania e io ho chiesto se potevo andare con loro. Durante il viaggio, scattare un selfie significava sempre ‘Ti accetto” e ‘Voglio avere un ricordo con te’. La storia poi si è conclusa con un altro selfie che ho fatto con uno di loro, Nayef, a Calais”.